Questo contenuto è tratto da un articolo di Marc J. Spears per Andscape, tradotto in italiano da Marco Marchese per Around the Game.
Sin dai suoi albori, la NBA è stata per antonomasia considerata tra i principali palcoscenici sul quale mettere in mostra il proprio talento sportivo, in particolare per deliziare il pubblico attraverso le giocate offensive. Lo è stato sin dai primi ganci messi dentro da George Mikan negli anni Cinquanta. A seguire con le incredibili medie di Wilt Chamberlain, la classe di Larry Bird e Magic Johnson, passando per His Airness, Michael Jordan, e quello che da molti è stato considerato il suo diretto erede, Kobe Bryant. Fino all’attualità, al record di punti in NBA di LeBron James, ed alle spettacolari giocate delle giovani stelle, Luka Doncic, Shai Gilgeous-Alexander, Ja Morant e tanti altri. Tutti con in comune l’abilità di tenere i tifosi col fiato sospeso una volta che il pallone è entrato in loro possesso, in trepidante attesa di conoscere l’esito della giocata successiva. Ma per quanto lo scoring sia fondamentale nelle dinamiche del basket, e possa risultare attraente per i fan, non sempre garantisce una longeva carriera in NBA.
Essere un rinomato scorer, infatti, può esporre ad esempio al problema degli eventuali periodi di vacche magre, durante i quali la vena realizzativa può parzialmente venir meno – per le ragioni più disparate: da infortuni a cambi nelle rotazioni o negli schemi, solo per citarne qualcuna. E va inoltre considerato che il basket, pur essendo uno sport in cui vince la squadra che totalizza più punti, ha moltissimi aspetti che giacciono sotto le realizzazioni offensive, e che contrassegnano tutta la costruzione delle trame, oltre che gli sforzi compiuti nel tentativo di spezzare quelle avversarie. Basta chiedere ad alcuni esperti di queste ultime fasi di gioco descritte, che ne hanno anzi fatto un loro punto di forza diventando veterani NBA del calibro di Draymond Green o PJ Tucker. Attualmente ci sono 24 giocatori in NBA con almeno 10 stagioni disputate, che non hanno raggiunto i 10 punti di media in carriera, per ESPN Stats&Information. Si tratta soprattutto di pilastri difensivi, role player, terze opzioni e coloro a cui è destinato il lavoro sporco, pronti a rispondere ad ogni richiesta dell’allenatore, compreso fungere da esempio ai compagni più giovani. E anche se in carriera hanno segnato meno punti di tanti colleghi che al Draft sono stati scelti con pick più alte, molti di loro sono riusciti a mettere in bacheca il Titolo NBA, surclassando i colleghi in quanto a trofei, contratti milionari e celebrazione.
“Si arriva in questa lega con tutte le speranze di farcela, di lasciare il proprio segno in positivo. Perciò quando mi volto e osservo quanto fatto e ottenuto, dico solo “Wow, è davvero incredibile”.”
Draymond Green
Di recente è stata condotta un’intervista con alcuni di questi giocatori, il cui tema principale è stata l’importanza del loro ruolo all’interno delle squadre e dell’intera NBA per più di una decade, nonostante la media realizzativa non sia stata tra le più elevate, menzionate e lodate. La lista di questi giocatori include:
- Draymond Green: giunto in NBA dopo esser scelto al Second round del Draft, conta ben 4 Titoli NBA, 4 presenze All-Star ed il premio NBA Defensive Player of the Year 2017, in 12 anni ai Golden State Warriors ha totalizzato 8.7 punti a partita;
- Bismack Biyombo: centro giunto in NBA dalla Repubblica Democratica del Congo, attualmente agli Oklahoma City Thunder, in 12 anni ha messo a referto una media di 5.1 punti dopo diversi cambi di maglia;
- PJ Tucker: dopo aver disputato 5 anni in giro per il mondo tra vari campionati internazionali, anche lui ha tagliato il traguardo dei 12 anni in NBA, durante i quali ha vinto un Titolo NBA con i Milwaukee Bucks, con una media di 6.7 punti in totale;
- Garrett Temple: attualmente guardia dei Toronto Raptors, è arrivato in NBA nel 2009 da undrafted proveniente da Louisiana State, e in 13 stagioni ha messo a referto 6.1 punti di media;
- Cory Joseph: scambiato dai Warriors agli Indiana Pacers nel corso di questa stagione, anche per lui 12 anni in NBA, durante i quali ha vinto un Titolo NBA nel 2014 con i San Antonio Spurs, mettendo a referto 6.9 punti
Qual è stato il fattore principale per la longevità della tua carriera?
- Green: L’opinione generale su di me era che fossi un giocatore versatile ma sotto taglia, e che quindi non avrei avuto lunga vita in NBA. In compenso io ho avuto sempre grandi aspettative da me stesso, pensando di valere molto più di quanto chiunque altro pensasse. Ma non posso dire che mi sarei aspettato di arrivare a tutto questo. Tutti vorrebbero arrivare in NBA e diventare un All-Star, mentre io pensavo che giocare al World University Games sarebbe stata la mia ultima presenza con la canotta di Team USA. Oggi, invece, porto al collo ben 2 Ori Olimpici. Ognuno può pensare che mi aspettassi di raggiungere tutto questo, ma essendo onesto, proprio non ci riuscivo. Bisogna trovare la propria fonte d’ispirazione, che porta ogni essere umano ad esprimere il meglio di sé. Nel basket ogni squadra ha bisogno di altro oltre allo scoring, ma molti cestisti pensano solo a fare punti. Perciò, si tratta solo di cercare il proprio credo cestistico, comprenderlo e abbracciarlo, e poi esso riuscirà ad aiutare a trovare il modo di essere utile all’interno della squadra. Che spesso finisce anche per diventare una parte indispensabile del roster.
- Biyombo: Scendere in campo interpretando il proprio ruolo al massimo delle proprie capacità e abilità. Bisogna inoltre comprendere che ogni squadra ha un suo sistema di gioco, con ogni giocatore con dei ruoli e compiti prefissati, e ovunque ci si ritrovi a giocare è necessario adattarsi a quello specifico sistema. La cosa più importante, per me, è stata comprendere le necessità della squadra e dare tutto me stesso per fornire il mio supporto in tal senso. Tutti vogliono vincere, ma per farlo bisogna dare il proprio contributo, che forse è proprio la parte più ardua. Ho avuto fede in Dio, ho lasciato che tracciasse il mio percorso e mi guidasse lungo la via. Bisogna avere fede: in famiglia siamo molto credenti, mia madre si assicura sempre che io reciti le mie preghiere.
- Tucker: Al giorno d’oggi è particolarmente difficile comprendere cosa stia accadendo all’interno di una squadra e quali siano i punti su cui spingere per poter risultare vincenti: l’Era dei social ha tolto importanza a tutti quegli aspetti del lavoro duro, che spesso si tralasciano. Non esistono statistiche per certe giocate. Ed ecco perché oggi si sente parlare di partite in cui certi giocatori non riescono a segnare neppure un canestro e nonostante ciò hanno ancora il miglior plus/minus tra gli uomini in campo. La gente non ha la minima idea di cosa voglia dire, ma gli uomini-squadra possono avere un effetto determinante sui team e condurli alla vittoria. Sono fiero di me e del mio cammino. Sembra strano, ma ancora non ho avuto modo di sedermi a riflettere. Credo di essere ancora negli ultimi anni del mio prime.
- Temple: Cerco di motivarmi sempre ogni giorno. Parlo spesso con mio fratello e mi dice sempre quanto sia fantastico il fatto che io giochi in NBA da 13 anni. Non ero un predestinato né un nome sulla bocca di tutti: è stato quasi un miracolo. Sono davvero fiero di ciò che sono riuscito ad ottenere e devo ringraziare molto la mia famiglia, soprattutto i miei genitori, per il modo in cui mi hanno cresciuto. Li ringrazio per i valori che mi hanno trasmesso e per il modo in cui mi hanno fatto crescere e maturare. Inoltre, ringrazio anche Dio.
- Joseph: Penso che nessuno sia davvero superiore agli altri in partita. Sin dai tempi del college ho avuto a cuore questa faccenda, in termini d’importanza di ogni uomo in campo. Quando si giunge in NBA non si può continuare a fare come prima. Non ci si può sentire sazi, anzi, bisogna pensare alla cosa con enorme gratitudine. Ogni giorno sono grato per ciò che ho ottenuto e ciò mi aiuta molto. Ho giocato in diverse squadre e sono capace di adattarmi per poter raggiungere gli obiettivi. Il vincitore non è sempre colui che i fan acclamano. Bisogna sempre esser pronti e farsi trovare pronti quando viene chiamato il proprio nome, portando a termine tutte le piccole cose che servono alla squadra. Bisogna anche essere delle brave persone, disposte al sacrificio. Sono sempre stato pronto a portarne il peso sulle spalle nel corso degli anni, e ancora oggi riesco a dare il mio contributo quando chiamato in causa. Occorre performare ad alto livello, e per farlo serve andare oltre sé stessi per trovare ciò che serve alla squadra.
Quali giocatori ti hanno fatto da mentore nei tuoi primi anni in NBA e quali sono i loro migliori consigli?
- Green: Il primissimo in assoluto è stato Jarrett Jack, il migliore. Poi anche Jermaine O’Neal. Andrew Bogut mi ha insegnato parecchie cose sull’aspetto difensivo: non sarei il giocatore che sono senza i consigli di Andrew. Bog mi ha insegnato come difendere in post, leggere i tagli nei corner sul versante difensivo. Mentre invece Richard Jefferson, RJ, mi ha insegnato più sul lato umano e comportamentale, aiutandomi a comprendere me stesso ed il mio modo di essere, per poterlo usare a mio vantaggio. Ma Jarrett Jack mi ha davvero insegnato tutto: il lavoro quotidiano, cosa voglia dire essere un professionista, tutta la vita extra-campo, dalla A alla Z. Per me è stato un enorme sostegno. E lo stesso vale per Jermaine O’Neal. Entrambi hanno avuto un’enorme fiducia in me, non solo in campo ma anche fuori. E non sarò mai grato abbastanza per tutto ciò.
- Biyombo: Soprattutto Boris Diaw. Ma anche Eduardo Najera e Matt Carroll. Ma con Boris ho trascorso gran parte del mio percorso cestistico e non. Non sono mai stato da solo, ho sempre avuto lui al mio fianco. Per me è stato un miracolo, una benedizione. E penso che con i più giovani bisogna comportarsi in modo da trasferire loro la conoscenza, le informazioni che servono loro. Sono estremamente grato per quanto mi è stato dato.
- Tucker: Ho avuto Dan Majerle che mi ha davvero aiutato tantissimo. Spesso mi incaricava di difendere sul miglior giocatore avversario per poter allargare il gioco e sfruttare il tiro da oltre l’arco. Mi motivava a lottare su ogni pallone sporco, dicendomi che avrei guadagnato tanti minuti in campo se avessi fatto il lavoro sporco. Era tutto ciò che potesse tramandarmi ed è tutto ciò su cui mi concentravo: lavorando sul tiro e sulla capacità di difendere in ogni posizione del campo, in ogni momento della partita. Dare il meglio sul parquet, senza dar troppa importanza a quale fosse il mio compito, ma svolgendolo al meglio. Il mio obiettivo era riuscire a poter difendere indifferentemente contro una point guard o contro un centro. Ci ho lavorato ad ogni partita. Dan Majerle era il mio allenatore, ma è stato anche un ex giocatore, ed è una persona che ho rispettato e rispetto moltissimo, che ho preso come esempio di vita. L’ho sempre ammirato ed imitato. Dan è stato da sempre la mia ispirazione, ed averlo come allenatore ai tempi di Phoenix è stata una benedizione. Per me è stato il numero uno. Così come alcuni miei attuali compagni, sono tornato in NBA all’età di 27 anni, e non è stato semplice. Ero già più vecchio di gran parte dei miei compagni.
- Temple: Ai tempi di San Antonio avevo Antonio McDyess. Mentre Tim Duncan è stato colui che mi ha insegnato ad essere un vero professionista. Tim era ed è un uomo di poche parole, ma mi ha mostrato ogni giorno tutta la sua professionalità durante gli allenamenti, e fuori dal campo con le sue abitudini. Persone come lui sono amanti dell’azione. Con McDyess parlavo tantissimo. Devo menzionare anche Ray Allen, anche se il tempo trascorso con lui a Miami durante il training camp non è stato molto, purtroppo. Ai tempi di Washington, invece, avevo un ottimo rapporto con Emeka Okafor. Ho giocato in tantissime squadre, perciò ho avuto anche altrettanti compagni che mi hanno fatto da mentore.
- Joseph: Sono stato davvero molto fortunato. Quando sono andato agli Spurs avevo un ottimo rapporto sia con Tony Parker che con Manu Ginobili e Tim Duncan. Senza dimenticare coach Gregg Popovich. Devo molto a quanto ho appreso in quel periodo agli Spurs. Tutto è iniziato da Tim Duncan, con il resto dei compagni che erano persone estremamente altruiste. Per questo sono divenuti degli Hall of Famers e hanno avuto tutto quel successo. Il motivo per cui sono riusciti ad ottenerlo è che si sono sempre adattati ad ogni situazione. Coach Pop ha allenato una miriade di giocatori e nessuno di loro era egoista. Ogni giorno ci si prepara mentalmente e fisicamente. Quei ragazzi erano e sono intelligentissimi. Come si può andare avanti se le cose vanno male sia dentro che fuori dal campo? Tim, Tony e Manu mi hanno insegnato come reagire a tutto ciò. Averli accanto è stato un miracolo per me. Credo siano loro la ragione della longevità della mia carriera.
Qual è stato il sacrificio più grande nel corso della tua carriera in NBA?
- Green: Tutto il percorso è un enorme sacrificio, pieno di up&down. E quando le cose vanno bene ci si sente al top, altrimenti tutto diventa brutale. In quel caso, anche solo riuscire a concentrarsi diventa un’impresa. Un attimo sei il miglior giocatore mai visto, con tutti col tuo nome sulle labbra, l’attimo dopo invece nessuno vuole più vederti in circolazione, implorando per una tua trade. Non si riesce ad essere utili per la squadra, si rimane ai margini. A volte può capitare. Si sentono chiacchiere di ogni tipo. Tutti spingono sul cercare di rimanere sul pezzo e concentrati, ma non è così facile. Difficile menzionare solo una cosa che ho dovuto sacrificare, poiché, come ho detto, l’intero percorso richiede enormi sacrifici. Si viene messi su un piedistallo e ciò costringe a molti sacrifici ed essere umili. Alti e bassi si ripetono di continuo e cercherò di rimanere umile finché sarò un professionista.
- Biyombo: Quando la squadra ha richieste che non riguardano lo scoring, ma servono comunque alla vittoria. Michael Jordan, in quel periodo proprietario delle quote di maggioranza degli Charlotte Hornets, ci diceva sempre moltissime cose riguardanti la vittoria. Quando sono arrivato a Toronto ho iniziato ad aver modo di sedermi e osservare, ed ho compreso come potevo essere utile alla squadra. Quell’anno ho incontrato Jordan all’All-Star Game e l’ho ringraziato tantissimo per quanto mi ha trasmesso agli Hornets. Bisogna trovare il modo di essere utili. Mentre molti sono sempre alla ricerca di cose da fare, io cerco di osservare video e film per imparare quanto più possibile per metterlo in pratica in campo. Molti affermano di aver compreso il proprio ruolo e le proprie capacità, ma bisogna anche essere bravi a motivare gli altri. Inoltre, sono stato molto fortunato ad aver potuto apprendere da così tanti allenatori, oltre che dai compagni. E ancora sto apprendendo nuove cose ogni giorno.
- Tucker: Quando si è nel First o Second team All-American al college si tende a pensare che si arriverà presto in NBA e che le cose continueranno ad andare così. Ma la verità è che non va assolutamente così, non è così facile. I compiti non sono mai abbastanza e non ci sono mai abbastanza palloni da giocare. Ci sono una miriade di numeri e cifre. Si viene investiti dall’umiltà nell’avere a che fare con tutto ciò, specie quando si comprende cosa serve per essere un buon giocatore per tanto tempo. I giocatori davvero forti durano al top al massimo 4-5 anni. Potrei parlarne per giorni, perché penso che non se ne parli abbastanza: riuscire a rimanere sempre al top è di una difficoltà enorme. Per chi supera i 10 anni di carriera nel basket, e io mi avvio verso i 20, diventa sempre più difficile raggiungere i propri obiettivi.
- Temple: Mi ricordo quando ai tempi dei Miami Heat, coach Erik Spoelstra mi disse che aveva intenzione di non confermarmi. Ero deluso, perché ritenevo di aver giocato abbastanza bene per meritare la conferma. Per fortuna, mio padre si trovava a Miami, allora ci siamo incontrati e abbiamo avuto modo di parlare. Se c’è stato un momento in cui ho davvero avuto dubbi su di me è stato quello, ma per fortuna è passato in fretta dopo un paio di ali di pollo. Sono andato avanti con la prossima missione, che è stata quella di giocare in G-League. Poi sono stato chiamato nuovamente in NBA, andando a Washington.
- Joseph: Ogni giocatore di basket deve volere il bene della squadra e non pensare individualmente. Ma ci sono periodi in cui le cose non vanno per nulla come vorremmo. Come fare a gestire la situazione? Si dà la colpa agli altri o si cerca di dare il meglio, sfruttando ogni chance per migliorare? Io preferisco la seconda. Preferisco non dare la colpa a nessuno e provare a sfruttare ogni occasione che mi viene offerta finché le cose non iniziano a girare per il verso giusto. Penso che quella parte della personalità che rende una persona piacevole è la stessa che rende la stessa persona vincente.
I giocatori NBA con 9 anni d’esperienza ricevono pensione e assicurazione medica a vita, con 10 anni i benefit sono estesi anche alla sua famiglia. Cos’ha voluto dire per te disputare nono e decimo anno in NBA? Eri consapevole di questi benefit?
- Green: Credo che quando ero al secondo anno in NBA ripetevo spesso questa storia della pensione, ma non ero molto sicuro di riuscire a giocare per almeno 9 anni. Ma ne ero consapevole e ci pensavo spesso durante i miei primi 2 anni. Se non erro, il benefit della pensione si ottiene già dopo 4 o 5 anni. Ma per avere la pensione per intero bisogna arrivare a 9 anni tondi. Mi ricordo molto bene che se ne parlava molto ai tempi, e anche adesso mi ritrovo a parlarne. Ricordo che, parlando con il mio vecchio compagno HB, Harrison Barnes, gli dicevo che dovevo arrivare per forza a 9 anni di carriera in NBA. Per me è stato un vero obiettivo. Ho firmato un contratto dopo il terzo anno e un prolungamento dopo il settimo, se non erro. E in quel periodo pensavo che quell’accordo mi avrebbe condotto a ottenere la pensione. Si trattava di un contratto enorme, ma nonostante ciò non potevo non pensare alla pensione.
- Biyombo: Quando sono arrivato in NBA sia Boris che DeSagana Diop mi hanno parlato del benefit della pensione dopo i 10 anni di carriera. Perciò, essendo allora ancora molto giovane, speravo solo di riuscire a poter disputare così tante annate in NBA. E sapevo che fama e reputazione all’interno della lega sono due fattori molto importanti per andare avanti. Ritengo il benefit una vera e propria manna dal cielo, ad essere onesto: sono un ragazzo nato e cresciuto in Congo, che sognava di giocare a basket. Riuscire a fare questo nella vita e poterlo continuare a fare è un dono che Dio mi ha concesso, perciò mi sento molto fortunato.
- Tucker: Non è un bene solo per la mia famiglia, perché la mia famiglia non conosce davvero ogni tappa che ho dovuto affrontare per arrivare fin qui. Figuriamoci i fan. Penso vada molto oltre ciò: per me è iniziata in Europa, poi ho giocato a Puerto Rico. Ho fatto 10-12 ore di autobus per giocare, quando mi trovavo in Ucraina. Non pensavo ad ottenere una pensione per la mia carriera in NBA. Anzi, credo fosse l’ultimo pensiero nella mia mente. Ritengo sia un bel traguardo, ma penso sia più uno stimolo per i più giovani: come dire, è lì, si può ottenere. Se fosse il principale obiettivo sin dall’inizio, allora potrebbe non funzionare. Ma se si lavora duro, mantenendosi costanti, facendo sacrifici, allora in futuro si raggiungerà questo traguardo.
- Temple: I miei primi 2 anni in NBA non posso davvero considerarli tali. Penso di poterli unire in uno solo, perché avrò giocato un totale di 30 partite in 2 stagioni. Ho iniziato a pensarci per le prime volte quando ho firmato un triennale con i Sacramento Kings. Allora non m’interessava molto di un anno in più o in meno nel contratto, a dire il vero. Però ogni tanto, prima di firmare, pensavo che avrei potuto firmare un accordo che mi assicurasse la presenza in NBA per altre 4 stagioni, così da superare quota 10. Al mio sesto o settimo anno speravo seriamente di firmare un quadriennale, meglio ancora se con opzione per un altro anno. Avevo capito che cercando di essere la persona giusta, allenandomi correttamente, il mio stile di gioco mi avrebbe permesso di essere ancora protagonista in NBA per vari anni, salvo infortuni. Si tratta di un grosso affare, davvero importante. Va dato merito a Chris Paul, ex NBPA President, e Michelle Roberts, ex NBPA Executive Director, per aver ottenuto questo risultato. Da anni era un obiettivo della NBPA ed è stato molto importante raggiungerlo. Mia moglie è molto felice di ciò che abbiamo ottenuto grazie alla mia carriera in NBA: lei conosce bene l’importanza di queste cose. Perciò conosco e apprezzo quanto la NBPA stia facendo per noi giocatori.
- Joseph: Nella vita si hanno sempre obiettivi e traguardi. Durante il mio anno da rookie a San Antonio, spesso mi trovavo a lavorare con lo shooting-coach, Chip Engelland e l’assistant-coach, Chad Forcier. Uno dei loro obiettivi era di arrivare ai 10 anni in NBA, e ne parlavano sempre. Mi ricordo che dicevano che la carriera di un cestista, al top, dura al massimo 4 anni, ed io avrei potuto provare a rimanere per almeno 10 anni in NBA, anche se non sempre in prima linea, perché dopo il decimo anno avrei ottenuto il benefit per me e la mia famiglia. Mi dicevano di lottare per quell’obiettivo. La longevità è stata quindi un obiettivo per me, e per ottenerla ho dovuto mantenere la testa bassa, pensando solo a lavorare. Adesso ho superato quel traguardo e ne ho altri, ma sono stato davvero felice di aver raggiunto i 10 anni in NBA. Essere arrivato a tanto è sinonimo del fatto che il lavoro svolto è stato utile ed è piaciuto a qualcuno.
Che consiglio ti sentiresti di dare se potessi parlare ad un NBA rookie camp?
- Green: Direi di trovare un bravo veterano che faccia da mentore, perché non c’è nessuno che possa mostrare, insegnare, prendersi cura o trasmettere più cose di un mentore a un rookie. Ripeto, direi di fare qualunque cosa per riuscire ad avere al proprio fianco un veterano che possa fungere da maestro. Ancora sento spesso Jarrett Jack. Credo che avere un buon mentore sia una delle cose più importanti per un giovane, e che uno dei bisogni primari delle franchigie sia proprio quello di affiancare veterani validi a giovani in rampa di lancio. Se si è fortunati si riesce a trovare quello giusto e costruire un ottimo rapporto. Gran parte della responsabilità risiede nella squadra, ma non dipende solo da essa. Da rookie bisogna cominciare ad assumersi le proprie responsabilità, anche essendo capaci di trovare un bravo mentore.
- Biyombo: Fare quante più domande possibili. A volte chiedere troppe cose può far sembrare una persona stupida, ma una domanda inizialmente stupida o banale può anche cambiare il corso di una carriera, salvandola dall’oblio. Ci sono alcuni errori commessi dai rookie che invece sarebbero le cose più semplici sulle quali si possa dar loro consiglio. Invito tutti i giovani a fare domande anziché star lì e sentirsi arrivati, perché c’è chi ci è già passato, ne ha viste e vissute molte più di loro giovani e ancora commette errori. E sono lì per aiutarli. Siate capaci di apprendere e imparare.
- Tucker: Per il 90% dei giocatori non sarà come si aspettano che sia. So che può davvero sembrare strano, ma davvero, il 90% dei nuovi cestisti non raggiungerà ciò che ha in mente attualmente. Perciò, innanzitutto bisogna esser pronti alle delusioni, perché è nel bel mezzo di queste delusioni che si trovano le motivazioni per andare avanti. Le delusioni ci impongono di fare scelte, andare a destra anziché a sinistra. E ogni scelta può essere un punto chiave per svoltare la propria carriera.
- Temple: Dal punto di vista finanziario è una chance di cambiare vita, sia per chi scende in campo che per le famiglie, ma non va dato per scontato. Non si deve pensare solo ad oggi e al momento in cui si sta vivendo, ma anche a tra 10, 20, 30, 40 anni. Inoltre, per poter ottenere i propri obiettivi bisogna mantenersi professionali, ed esserlo è qualcosa che costringe a tanti sacrifici. Una mancanza di professionalità può costare l’intera carriera in NBA, ancor più che una carenza di talento. Il 98% dei nuovi arrivati in NBA ha più talento di me, ma lo stesso 98% non riuscirà a giocare tanto a lungo quanto me, e la spiegazione è una sola: se ci si mantiene corretti e professionali si riuscirà a giocare a lungo in NBA. Un’altra cosa importante è assicurarsi di avere accanto persone affidabili e sincere, che facciano notare gli errori commessi: assicuratevi di avere vicino qualcuno che sappia tener testa quando si esce fuori dalle righe.
- Joseph: Cercare di essere come una spugna e assorbire quanto più apprendimento possibile. Rimanere fedeli a sé stessi ed ai propri principi, senza snaturarsi. Non serve fingere di essere qualcuno che non si é. In mezzo a tutto questo si troverà la propria ispirazione che spinge a giocare a lungo. In quanto a uomini, dico solo di rimanere fedeli a sé stessi.