
Una giornata a sfogliare le più disparate opinioni su Twitter, e ancora non trovo una ragione per cui Grant Williams abbia in qualche modo sbagliato a provocare Jimmy Butler. No, davvero, sono qui che aspetto.
A parte i meme, le erezioni suscitate dal vedere un giocatore dalle qualità infinitamente maggiori fare quello che tutti si aspettano che faccia contro uno dalle qualità infinitamente più limitate, il tran tran che ne è derivato risulta davvero incomprensibile. Ad averne, anzi, di Grant Williams.
Posto che, comunque, il rapporto tra i due a fine partita è risultato uscirne completamente illeso, se non migliorato, essendo anche le dichiarazioni dello stesso Butler (le trovate QUI) intrise di enorme rispetto, ci sono dinamiche che vengono completamente oscurate dalla sete di assistere al crudo spettacolo, completamente inventato, dello scoppio dell’insetto sotto la scarpa del gigante. Qualcosa che piace e che dispiace ammettere non esista affatto.
Non so in quanti si siano presi la briga di ascoltare le dichiarazioni post-partita del giocatore di Boston, se non per estrarne una citazione che potesse alimentare il comprensibile scherno, ma sono quelle lucide di uno che sa esattamente quello che ha fatto. In primis, la sua versione è che abbia semplicemente – sia mai – tenuto testa a Butler, dopo che questo avrebbe iniziato a “complimentarsi” con lui (“Ha detto qualcosa e ho solo risposto”).
Quindi, come confermato dallo stesso Jimmy, pura e sana competizione. Oltre a questo, è molto interessante ascoltarne il resto del discorso:
“Non importa se lo motivo o meno, lui farà comunque quelle cose. Per me è una questione di fargli capire che, sì, ‘è stato stuzzicato il cane che dorme’ (‘poke the bear’) e quindi di dare una risposta. Poi è stata una battaglia, ha messo tiri difficili, ma ho lottato e continuerò a lottare. Starà a lui mettere ogni singolo tiro difficile per il resto della serie e io non mi tirerò indietro. Lo rispetto come un fottuto giocatore, è una gran persona, un grande essere umano. Ma, in fin dei conti, la nostra squadra deve prendere una decisione: o torniamo e stabiliamo noi il ritmo per il resto della serie, o ci lasciamo buttare a terra.”
L’ultima frase è esattamente quella che ti aspetteresti da un leader, da un Jayson Tatum, da un Marcus Smart o da un Jaylen Brown, ma è comprensibile che possa risultare goffo ai più se a dirlo è un “signor nessuno” come Grant Williams. “Giusto” nel senso di comprensibile, ognuno di noi tende a crearsi idoli e, per forza di cose, la narrazione che abbiamo voglia di imporci o di farci imporre ci porterà sempre a schierarci con l’individuo di cui abbiamo preso posizione, o per il quale nutriamo maggior rispetto.
Pertanto, considerando che molti spettatori “occasionali” nemmeno conosceranno Williams, Butler avrà sempre l’high ground, quando il meccanismo mentale innescatosi nel giocatore dei Celtics è invece sacrosanto: ricevo una provocazione, non accetto di farmi mettere sotto, quindi mando un messaggio.
Questa volta, non è andata a buon fine, semplicemente perché Jimmy Butler ha deciso di confermarsi Jimmy Butler; perché Grant Williams, con tutto l’impegno del mondo, resta Grant Williams; e perché, probabilmente, sebbene Boston fosse sopra al momento del primo scambio fra i due, la situazione avrebbe dovuto stimolare la squadra nel seguente momento di difficoltà, durante il quale si è presentata invece molto passiva – a partire dalle star nella metà offensiva, fino all’accettare di buon grado, senza aggiustamenti, che Butler continuasse a fare quello che ha fatto in faccia a Williams.
Ma quella di quest’ultimo è una posizione sacrosanta e, anzi esaltante. Cosa avrebbe dovuto fare? Accettare di buon grado di essere messo sotto solo perché l’altro sulla carta parte “più forte”? Allora non giochiamo, no? Lo spirito di competizione da ammirare parte, in primis, da Williams, Jimmy Butler ne è solo il risultato che contribuisce allo spettacolo. E che, sia chiaro, non fa uscire nessuno dei due a testa bassa, cosa che invece ci piace pensare. Anche perché la serie è tutt’altro che finita.
“Sono un competitor e quindi combatterò sempre. Ha tirato fuori il meglio di me e alla fine si tratta di rispetto, non mi tirerò indietro. I miei genitori mi hanno insegnato che, se qualcuno mi avesse preso a calci in culo, non mi sarei dovuto far rivedere a casa se prima non fossi tornato a combattere. O vinci, o muori, e non voglio morire in queste Eastern Conference Finals. Sono pronto a prendermi una fottuta vittoria.”
Come ha detto bene il giocatore dei Celtics, quei tiri sono incredibili, ma dovranno anche entrare ogni singola volta. E state certi che Grant Williams ci sarà, possesso dopo possesso, a farsi tirare in testa, a farsi “bullizzare” dentro e fuori dal campo, fino a che uno di quelle conclusioni, magari una decisiva, non verrà sputata dal ferro. O magari, tornando alla realtà e finendola con le favole, verrà semplicemente battuto, regalando comunque uno spettacolo che fa assolutamente parte dello sport, e che ultimamente fra i media NBA sembra suonare abbastanza strano.
Citofonare a Dillon Brooks, per cui è stata tirata su una montatura ridicola criticata addirittura dai Grizzlies e che ha portato l’agente del giocatore ad attaccare direttamente le “false notizie” di Shams Charania. Per cosa? Per averle prese dopo aver provocato LeBron James? Cos’è, lesa maestà? Mi sono evidentemente perso il passaggio in cui l’NBA ambisca a trasformarsi in uno stato feudale.
Allerta anacronismo scattata anche per Patrick Beverley, che ci ha regalato uno – in realtà, molti di più – dei momenti più memorabili di questa stagione. Tutte situazioni che fanno parte della competizione e contribuiscono allo spettacolo, soprattutto nel momento in cui portano a una sonora batosta poco dopo.
E non perché, chi scrive, goda nel vedere giocatori più limitati essere “annichiliti” dalle superstar (anzi, l’opposto), ma perché tira fuori da queste ultime il meglio di loro. In un ambiente competitivo come la NBA, nessuno pensa di partire “svantaggiato”, restando nelle sue e senza svegliare il gigante che dorme. Una delle creature generate dall’agonismo è proprio il puro trash talking, che vale fra tutte le categorie e che mette sullo stesso piano qualunque giocatore, lasciando poi la parola decisiva solo al campo.
Il pensiero dei Grant Williams parte dal presupposto che, se vuoi essere migliore, devi dimostrarlo, non basta parlare. Butler lo ha fatto, e dovrà farlo mille altre volte, non trattandosi di mancanza di rispetto, ma di un messaggio ben preciso e di una situazione che non vuole far altro che mettere alla prova.
E a scriverne è uno che non potrebbe distaccarsi maggiormente da queste dinamiche, ma che allo stesso tempo ne comprende l’assoluta necessità a certi livelli. Anche perché, senza i Grant Williams, non ci sarebbero nemmeno i Jimmy Butler.