Perchè la storica protesta dei giocatori NBA è giusta e deve essere rispettata.
Nelle ultime ore aprire in Italia un qualunque forum social legato al mondo NBA è equivalso ad immergersi in una ondata di opinioni sulla legittimità o meno da parte dei giocatori NBA di scioperare – non percependo quindi alcuna paga, come sottolineato a chiare lettere dalla democratica Alexandra Ocasio-Cortez –in occasione delle gare di Playoffs in programma per la giornata di mercoledì 26.
Come da legge social, ognuno si è ritagliato il proprio spazio opinionistico in merito alla questione, esprimendo vicinanza rispetto al gesto degli atleti oppure bollandoli come dei “buffoni… pensino a giocare e non entrino in questioni politiche che non li riguardano.”
Dal canto mio, mi sono ritrovato fortemente a favore di quello che è a tutti gli effetti un gesto talmente storico che creerà senz’altro un precedente nella storia politica americana e non solo.
Vorrei partire dal “pensino a giocare” stabilendo quelli che sono due postulati.
Primo: nel nostro Paese, piagato anch’esso dal razzismo, non siamo generalmente predisposti ad associare allo sport e alle sue declinazioni né un valore socio-politico così grande né un dibattito all’altezza di tematiche così importanti.
Non in un Paese in cui il presidente della Federazione Italiana Giuoco Calcio – per distacco sport più seguito in Italia – Carlo Tavecchio non più di 6 anni fa parlava in conferenza stampa di “opti poba che prima mangiava banane e ora gioca titolare nella Lazio” e definiva come “handicappate” le esponenti del calcio femminile.
Non in un Paese in cui società e presidenti fanno buon viso a cattivo gioco con le frange del tifo organizzato, che non di rado ululano all’indirizzo di un avversario di colore. Lasciando cadere la questione nel silenzio o minimizzandola come mera goliardia.
Secondo: è molto difficile, pur documentandosi anche da fonti dirette, comprendere nel profondo sia la portata della realtà americana (banalmente non siamo abituati a veder girare per le nostre strade imbracciando un mitra 17enni giustizieri della notte) in materia razzismo e non solo, sia il valore intrinseco che determinate istituzioni rivestono nel tessuto sociale a stelle e strisce.
Basti pensare al fatto che negli USA siano le scuole a comporre le leghe sportive, e non singole società, permettendo all’atleta di formarsi non solo in quanto tale ma anche come persona. Con l’obiettivo di sviluppare sì talenti ma anche coscienze e culture.
Senza contare che talvolta può essere proprio lo sport a garantire l’accesso a determinate realtà scolastiche a ragazze e ragazzi altrimenti non in grado di permetterselo.
Ora, se questa è l’idea di base, è chiaramente erroneo definire a priori questa macchina educativa come perfetta a tutto tondo. Spesso infatti le scuole americane sono state fonte di discriminazione, sia economica che sociale, con esiti talvolta drammatici.
Tenendo però in considerazione tutto ciò, non si può rimanere sorpresi dal fatto che la pressochè totalità dei giocatori NBA americani abbia frequentato almeno un anno di College, e che una larga fetta sia laureata.
Ed è altrettanto difficile sorprendersi che sia giocatori della vecchia guardia come LeBron James e Chris Paul, sia nuove generazioni come Malcolm Brogdon o Jaylen Brown siano in grado di maneggiare con una certa dimestichezza e con un certo carisma determinate tematiche. Per cultura ed esperienza personale.
Chi chiede retoricamente a gran voce se non sia ipocrita che dei “privilegiati milionari si rifiutino di scendere in campo per giocare una partita di pallacanestro” dovrebbe a sua volta chiedersi: “perché non dovrebbero farlo?”
Perché atleti che hanno un’esposizione mediatica planetaria e si sentono così coinvolti da una piaga sociale come il razzismo non possono avere il diritto – e per certi versi quasi il dovere – di far valere la propria posizione ed esporsi a favore di una causa che è fin troppo evidente che non abbia confini?
Perché, alle voci delle persone comuni, non aggiungere proprio quella di un LeBron James, che grazie al proprio talento ha raggiunto livelli di visibilità tali da poter fungere da cassa di risonanza ad un movimento che si propone, per compattezza e ideali, di cambiare davvero qualcosa?
FOTO: Forbes.com
Nella retorica comune – cavalcata in primis da Donald Trump, fiero oppositore di una detestata organizzazione che sin dal suo insediamento ha immancabilmente evitato la tradizionale visita dei Campioni in carica alla Casa Bianca – è inaccettabile che un privilegiato (cfr multimilionario) possa schierarsi a favore di cause civili perché palesemente velato di ipocrisia o secondi fini. Che potrebbero coincidere con l’imbonimento dell’opinione pubblica e ritorni di immagine prettamente legati a doppia mandata ad una sfera economica.
Se per grandi aziende come Apple o Nike – per altro di recente associate all’ombra dello sfruttamento degli Uiguri, minoranza musulmana cinese repressa e spolpata dal governo di Pechino in veri e propri campi di lavoro forzato – questa equazione può sorgere spontanea, non può essere compiuta ad occhi chiusi nei confronti di coloro che prima di essere atleti sono uomini facenti parte di una comunità di forte senso identitario.
E se è difficile slegare LeBron James dal suo brand plurimilionario, è altrettanto ingeneroso e superficiale ricondurlo solo a questo o affermare che la protesta sua e dei suoi colleghi valga meno perché proveniente da personaggi con le proverbiali spalle coperte.
A tal proposito, eloquente è stato l’intervento dell’attore John Boyega durante le manifestazioni dello scorso giugno a Londra per la morte di George Floyd.
Dopo aver parlato a braccio per diversi minuti con un megafono ad una folla oceanica composta di persone d’ogni etnia, si è fermato a prender fiato, realizzando probabilmente le ripercussioni che sarebbero potute scaturire da una sua esposizione pubblica così macroscopica.
Sopraffatto dalle lacrime, ha detto:
“Sentite, non so neanche se avrò una carriera dopo tutto questo… ma vaffanculo alla carriera! È adesso il momento. Io non aspetto più.”
A parlare, col cuore in mano, non c’era la Star milionaria dell’ultima trilogia di Star Wars, ma un 28enne di Londra le cui parole, proprio perché dette da lui, avrebbero potuto raggiungere più persone possibili. Come effettivamente è successo grazie al passaparola social.
Sulla stessa lunghezza d’onda viaggia il sopracitato Jaylen Brown, che sin dal principio della sua carriera ha dimostrato di possedere un forte senso identitario nei confronti del proprio ruolo. Cosa che lo ha portato a voler utilizzare il suo essere un atleta di successo anche nelle dinamiche sociali, dichiarando a più riprese di volersi porre come figura di riferimento nel processo di miglioramento della meritocrazia all’interno del sistema scolastico e lavorativo americano.
Come Brogdon e molti altri giovani atleti (Karl-Anthony Towns, ad esempio, che nonostante la perdita della madre per Covid ha partecipato al corteo di Minneapolis con Okogie e D’Angelo Russell), anche JB è sceso in strada con il movimento BLM, tenendo ad Atlanta un discorso di forte impatto nel quale rivendicava il suo essere prima di tutto un membro della comunità nera e poi un giocatore NBA; e che questo in nessun modo potesse escluderlo da una causa che sentiva propria in prima persona. Tra i più ferventi sostenitori di Colin Kaepernick, Brown più volte ha ripetuto l’importanza del ruolo dello Sport nell’educazione all’uguaglianza e all’inclusione sociale; sottolineando come il suo essere un atleta sia un grande valore aggiunto per trattare tematiche comunitarie importanti, e non una scusa per voltare la testa dall’altra parte.
FOTO: NBA.com
“Voglio che quando le persone vedono il mio nome non pensino soltanto ‘è un giocatore NBA’.
Sto cercando di abbattere le barriere che la gente ha creato riguardo agli atleti. Non sono d’accordo con quelli che dicono che un atleta non possa essere intelligente; con coloro che pensano che siamo un gruppo di adulti virili che non sanno controllarsi. Questa è una narrativa con un retropensiero razzista che cercano di dipingere, ma che dobbiamo cambiare.
Io sono un’eccezione del quartiere da cui provengo, ma perché dovrei dimenticarmi delle persone che non hanno avuto le mie stesse opportunità? È per questo che mi identifico come attivista almeno tanto quanto mi identifico nell’essere un giocatore NBA.”
Perfettamente coerente con questo pensiero, e da vice-presidente della NBPA, è stato uno dei fautori del boicottaggio di Gara 5 tra Bucks e Magic, sapendo smuovere le coscienze di giocatori già comunque risoluti nella propria posizione:
“Una volta usciti da qui andrete a rilassarvi con le vostre famiglie e dimenticherete questo senso di vuoto o sarete disposti a essere in trincea, a scendere in strada?”
Non è non giocare una semplice partita, è non giocare una partita vista da migliaia di spettatori per mandare un messaggio chiaro ad una nazione che attualmente concentra la quasi totalità del proprio interesse sportivo sui Playoffs NBA: per quanto simbolicamente, non è ammissibile far passare il ferimento con 7 colpi alla schiena di un fratello come una semplice notizia di cronaca.
Lo dice lo stesso Marco Belinelli:
“Lo sport ha un potere enorme. Noi atleti dobbiamo essere i primi a dare risalto a queste storture utilizzando le nostre piattaforme. Un poliziotto che spara nel Wisconsin è anche un problema nostro, non solo del Wisconsin. Noi sportivi abbiamo un peso: dobbiamo sfruttarlo.
Le questioni politiche non mi interessano, quelle razziali sì: il razzismo è un problema sociale, non politico. Non possiamo far finta che non accada nulla, ci sono cose più importanti di una partita di basket.”
Ciò che è venuto automatico a “privilegiati chiusi in un bolla dorata” è stato rompere il giochino dal suo interno.
D’altronde l’isolamento della avveniristica NBA Bubble non equivale ad un’ermetica mancanza di contatto con la realtà. Numerose testimonianze dal suo interno popolano social, podcast e altri canali di diffusione.
La più meritevole è rappresentata dal tanto singolare quanto straordinario documentario del rookie di Phila Matisse Thybulle, “Welcome To The Bubble”.
In questo mini-doc di 8 puntate aggiornate progressivamente su YouTube, Thybulle è riuscito ad offrirci con un occhio incredibilmente delicato la quotidianità all’interno della bolla per quanto riguarda i suoi 76ers.
Quotidianità che non si è declinata soltanto in braccialetti elettronici per accedere a qualsivoglia area, tamponi e routine sempre uguale a se stessa, ma anche in tanto tempo libero impiegato in discussioni su quanto stava accadendo al di fuori della bolla e su come poter fare la propria parte dall’interno.
Nel corso degli episodi Thybulle ha spiegato la sua scelta di partecipare alla sensibilizzazione NBA sul BLM con la scritta “Vote” apposta dietro la sua canotta, sostenendo l’importanza di portare cambiamenti tramite un voto coscienzioso, oltrechè la grande possibilità data a lui e agli altri giocatori da parte di una “piattaforma di massa come l’NBA” di raggiungere e sensibilizzare “i tanti bambini che ci guardano, o le persone che ci ascoltano. Sono fiducioso che tanti occhi e tante orecchie possano essere rivolti a noi per vederci e ascoltarci, e far sì che qualcosa cambi davvero.”
Ma lo spaccato più interessante è quello legato ad alcuni meeting – su idea di Tobias Harris – durante i quali i 76ers si sono confrontati su svariate tematiche, tra cui l’educazione e il valore del movimento Black Lives Matter.
Proprio legati a ques’ultimo e alle impressioni di ognuno in merito sono gli interventi di maggiore interesse, anche da parte di giocatori bianchi.
“Io vengo dalla Turchia, e da dove provengo io la mia bandiera viene per prima e l’inno nazionale per secondo. Durante l’inno si sta sull’attenti, non ci si può muovere perché è come se fosse irrispettoso.
Detto questo, ok, vengo dalla Turchia ma vivo qui, ed è qui che ho fatto fortuna. Ed è per questo motivo che ho lo stesso rispetto per la bandiera americana, però qui si tratta di diritti umani e ciò che è accaduto è assolutamente inaccettabile. Per questo io sarò con voi al 200% ragazzi, e non ci sono dubbi in merito.
Cercherò anche, da ragazzo bianco, di avere un maggiore impatto stando al vostro fianco perché voglio far parte di questa cosa. Vengo da un altro paese, ci saranno 85 milioni di persone a guardare.
L’unica cosa su cui non mi sentivo a mio agio era inginocchiarmi, perché lo vedevo come una mancanza di rispetto alla bandiera, al governo o a chi per loro.
Mi è stato detto che non si tratta di mancare di rispetto alla bandiera, si tratta di reagire a ciò che è successo, che è una cosa che mi trova molto d’accordo ed è il motivo per cui se ci inginocchieremo tutti sarò di certo con voi.”
Furkan Korkmaz
“Non sono nato qui, ma sono colpito da tutto ciò che sta succedendo.
Perciò se qualcuno venisse da me e mi chiedesse perché mi stessi inginocchiando gli risponderei che lo starei facendo non soltanto per supportare i miei compagni di squadra, ma perché stiamo cercando di portare a maggior consapevolezza la questione della giustizia sociale in questo paese.
E se qualcuno, qui o in Brasile, mi chiedesse “che bisogno hai di inginocchiarti, non sei nemmeno americano” gli risponderei che non importa, perchè abbiamo un messaggio troppo importante da far passare anche a livello mediatico.”
Raul Neto
E assieme alla riflessione “non siamo venuti ad Orlando solo per giocarci il Titolo, ma anche per trarre qualcosa da ciascuno di noi” tracciato da Tobias Harris come filo conduttore della discussione, campeggia anche l’intervento del Director of Basketball Aministration di Phila Allen Lumpkin:
“Voglio che voi facciate tutto ciò che è in vostro potere per trasmettere il messaggio.
Il ferro è caldo, e voi avete il dovere di batterlo e di non lasciar perdere.
Perché avete l’opportunità di portare un cambiamento, e potreste non averla mai più. Perciò prendete questa opportunità e cavalcatela, perché è un onore poter prendere parte ora a questo processo.
E sappiate che votare a queste elezioni è più importante di qualsiasi altro voto che abbiate mai dato in vita vostra.”
Del fatto specifico di Blake ha parlato anche Doc Rivers, che nello sconforto ha lasciato briglia sciolta alle emozioni:
“Dovrei essere solo un allenatore, invece tutto questo mi ricorda il mio colore. Quello che più mi fa male è sentire le voci della convention repubblicana parlare di paura. Donald Trump e tutti loro che parlano di paura. Ma come osano? Siamo noi quelli che vengono uccisi, quelli a cui viene negato il diritto di vivere in determinate comunità. Per anni siamo stati impiccati, ci hanno sparato, e in mezzo a tutto questo si sente costantemente parlare di paura.
Siamo noi a dover parlare con ogni bambino nero: quale padre bianco deve dire a suo figlio di stare attento se dovesse incontrare un agente che gli chiedesse di fermarsi?”
Il gesto ha raccolto il supporto anche di un mostro sacro come Bill Russell, il quale si è detto fiero e speranzoso che questa presa di posizione possa portare a qualcosa di buono.
Russell è stato un pioniere in tal senso, combattendo per anni il razzismo dilagante nella Lega degli anni ’60 e rendendosi protagonista egli stesso di un autentico boicottaggio nei confronti di una partita di esibizione a Lexington, nel Kentucky.
Questo perché sul volo d’andata, un assistente di Red Auerbach lo aveva messo al corrente che lui, K.C. Jones e Sam Jones – guarda caso gli unici 3 giocatori di colore – una volta atterrati si sarebbero dovuti recare a fare il check-in in un Hotel differente rispetto a quello del resto della squadra, come da “direttiva delle autorità del luogo.”
Profondamente indignata, la superstar dei Celtics avrebbe, nel giro di poche ore, preso assieme ai suoi due compagni l’aereo di ritorno alla volta di Boston.
Stessa solidarietà è stata espressa da Kenny Smith, che ha deciso di lasciare simbolicamente lo studio di Inside The NBA perché “come uomo di colore ed ex giocatore, credo che il meglio per me sia supportare i giocatori e semplicemente non essere qui stasera”, raccogliendo la comprensione e il supporto di Ernie Johnson.
Un gesto di tale portata è riuscito a coinvolgere a tutti i livelli i rappresentanti della Lega – persino gli arbitri – dimostrando non solo grande forza intrinseca ma anche una straordinaria partecipazione di carattere universale che ha saputo sconfinare anche in altre leghe (WNBA) e in altri sport – tra cui il baseball e il calcio.
Questo perché se la dichiarazione programmatica dei giocatori è stata “we will no longer shut up and dribble” – che riprende l’infausta uscita della conduttrice televisiva conservatrice Laura Ingraham all’indirizzo di LeBron James – è giusto che venga supportata anche da coloro che non scendono materialmente in campo, ma che hanno la possibilità di diffondere le motivazioni e la modalità della protesta.
Come? Parlandone, informandosi, creando un dibattito i cui spunti di riflessione possano per davvero smuovere le coscienze. E questo può avvenire ovunque, che sia lo studio di una trasmissione da milioni di spettatori o le righe di una testata editoriale online come la nostra.
Perché, specie di questi tempi, sono fin troppi i riscontri del fatto che razzismo e discriminazione non siano una problematica legata solo al mondo oltreoceano, ma interessino tutto il globo.
Dagli Stati Uniti, in cui la polizia spara alle spalle di un uomo inerme, all’Italia, in cui una retorica spesso volutamente falsa contro i migranti è perno della politica di alcuni partiti. O in cui, giusto per citare un altro esempio, una piaga sociale come il capolarato e lo sfruttamento dei braccianti agricoli interessa non solo italiani ma anche e soprattutto gli ultimi tra i profughi, con autentici richiami allo schiavismo.
Molto scalpore ha fatto anche il “NO” espresso da Lakers e Clippers sulla ripresa della stagione, ovviamente bilanciato dalla spinta favorevole di tutte le altre franchigie della bolla. Questo perché è ovviamente utopistico pensare di piegare agli ideali gli interessi economici a 9 zeri che sostengono il circus NBA, specie nel periodo Playoffs. Né il commissioner Adam Silver avrebbe mai permesso che succedesse.
Eppure, se è materialisticamente ragionevole comprendere le cause, bollare il tutto come mera ipocrisia è totalmente scorretto, essendosi esposte le due principali candidate al Titolo con a Roster 3 dei primi 10 giocatori della Lega nei panni di LeBron James, Anthony Davis e Kawhi Leonard.
Un gesto simbolico, che sia questo o lo sciopero, non può essere sminuito in quanto tale. Così come non può ridurne il valore il fatto che sia portato avanti da atleti che con ogni probabilità non avranno le stesse ripercussioni – contratto collettivo permettendo – di un Muhammad Ali o di Tommie Smith e John Carlos, che sul podio olimpico dei 200 a Messico ’68 diedero vita al famosissimo pugno alzato al cielo. Non si tratta di una corsa a chi rinuncia di più per la causa con animo martire, ma nel fare la propria parte secondo le proprie possibilità.
FOTO: TheNation.com
Il mondo di quegli anni, usando una frase fatta, non è quello attuale. E se ai tempi gesti simili erano quasi visionari, nel 2020 è giusto e perfettamente comprensibile che chi ne abbia la possibilità utilizzi al meglio la propria risonanza contando sulla propria forza.
Raccogliendo il testimone lasciato da chi prima si è esposto e messo in gioco, per garantire la possibilità di aggiungere alla causa un importante e storico mattone in più che una comunità intera spera sia quello decisivo.