La giocatrice-simbolo della WNBA è riuscita a portare a termine una missione ancora più difficile rispetto a vincere un titolo: ha restituito ad un uomo la sua libertà.

FOTO: WNBA.com
Questo articolo, scritto da Sean Hurd per The Undefeated e tradotto in italiano da Alberto Pucci per Around the Game, è stato pubblicato in data 2 luglio 2020.
Quando Jonathan Irons è uscito dal Jefferson City Correctional Center il 1° luglio scorso, Maya Moore è stata sopraffatta dalle emozioni.
Per Irons, infatti, quelli erano i primi passi fatti fuori dalla prigione di massima sicurezza del Missouri negli ultimi 23 anni. I suoi primi attimi di libertà da uomo adulto. Per Moore, 31 anni, quello era un momento atteso da anni, per cui aveva sacrificato due stagioni della sua carriera professionistica. Abbracciandolo, l’ex numero 23 delle Minnesota Lynx (ed ex compagna di Cecilia Zandalasini, che ci ha raccontato QUI la sua Maya Moore) ha chiesto all’uomo che conosce da ormai 13 anni:
“Come ci si sente?”.
“Vivo” – risponde Irons – “mi sento come se fossi finalmente in grado di vivere”.
“Sono Libero”.
Nel 2019, al culmine della propria carriera e da icona dello sport, Maya Moore ha deciso di lasciare la WNBA per concentrarsi unicamente sulla scarcerazione dell’amico, e oggi consorte, Jonathan, condannato a 50 anni di reclusione in seguito ad una rapina compiuta quando ne aveva 16. Non c’erano prove fisiche della colpevolezza di Irons, che però non sarebbe stato eleggibile per la libertà condizionata per altri 20 anni. Il prodotto di UConn, quindi, aveva davanti a sé una lotta difficile e senza garanzie di successo.
Un anno fa, a marzo, è arrivata però la svolta che tutti attendevano: un giudice ha annullato la condanna di Jonathan e, dopo una serie di appelli falliti, il procuratore della Contea di Saint Charles ha deciso di non processare nuovamente Irons. Maya e Jonathan avevano vinto.
“É stata un’esperienza profonda, eravamo tutti fortemente coinvolti, io, Jonathan, è stata un’esperienza che ha messo le radici per qualcosa di grande”.
Queste le parole di Maya nel ricordare la propria lotta. La giocatrice ha poi voluto fare, durante la medesima conferenza stampa telefonica, una riflessione profonda sull’abusato concetto di Legacy:
“Una Legacy è creata e mantenuta da forti investimenti emotivi e di tempo. Se non sei disposto a farne, non ne lascerai mai una”.
Nel periodo storico che stanno vivendo gli Stati Uniti, con le uccisioni di George Floyd, Breonna Taylor e Ahmaud Arbery, oltre ai recenti attacchi di cui è stata vittima la comunità asioamericana, gli atleti hanno dovuto fare i conti e prendere posizione rispetto all’ingiustizia sociale. I giocatori hanno protestato per le strade, lanciato messaggi sui social media, sfidato le strutture di potere e sono arrivati addirittura a rifiutarsi di scendere in campo – il 26 agosto scorso, nella bubble – per richiamare l’attenzione sul problema.
Mentre gli atleti riflettono su cosa sia giusto fare con il proprio seguito e come si debba agire per cercare di bilanciare messaggi sociali e una carriera da professionista, l’esempio di Maya Moore si staglia su tutti. Scegliendo di non giocare per ben due anni, infatti, l’ala di Minnesota ha ottenuto qualcosa di molto più grande di un titolo o un riconoscimento personale: ha donato ad un uomo la propria libertà.
“Questa è l’apoteosi del saper usare la propria piattaforma” – ha dichiarato alla stampa l’head coach delle Minnesota Lynx, Cheryl Reeve, lo scorso marzo. “Non sta più giocando, palleggiando, muovendosi per il campo, ma si sta dedicando a questa cosa con la stessa dedizione che ha avuto da giocatrice, da compagna di squadra, da professionista. Questa è Maya, se si mette in testa di fare qualcosa, lo farà sicuramente in modo eccellente”. Ha poi chiosato, profetica:
“Non importa per che squadra scelga di giocare Maya. Nel momento in cui si unisce ad un team, quel team ha possibilità di successo nella propria battaglia”.
Reeve, che è stata la coach di Moore fin dalla sua chiamata come numero uno assoluta al Draft del 2011, ha sostenuto la propria giocatrice sin dall’inizio nella sua battaglia per la giustizia sociale.
Nel luglio 2016, dopo la sparatoria che ha causato la morte di Alton Sterling, Philando Castile e alcuni membri del Dipartimento di Polizia di Dallas, Reeve ha aiutato le proprie giocatrici ad organizzare una manifestazione. Nella conferenza stampa prima di una gara contro le Dallas Wings, infatti, le quattro capitane delle Lynx, tra cui la stessa Moore, hanno indossato una maglietta con scritto “Change starts with us, Justice & Accountability”. Sul retro della stessa maglietta si trovavano Castile, Sterling, le insegne del Dipartimento di Polizia e la scritta Black Lives Matter.
Reeve ha poi dichiarato che, pur vedendo Moore sempre più investita nella lotta, è rimasta sorpresa quando le ha detto che avrebbe sospeso la propria carriera professionistica per dedicarvisi integralmente.
“Non ho compreso subito quanto fosse grande questa cosa, come è diventata così grande da farle decidere di sacrificare parte della propria carriera”.
Per comprendere la grandezza di Moore e la difficoltà della sua scelta, non si può prescindere dal conoscere i suoi risultati cestistici.
A 29 anni, e con sole 7 stagioni da professionista, Maya aveva già messo in bacheca 4 titoli WNBA, un MVP delle Finali, un MVP della Lega, 6 convocazioni all’All-Star Game, due medaglie d’oro olimpiche, due medaglie d’oro mondiali, due Euroleghe, una Liga spagnola e un campionato cinese. Tutto questo dopo aver vinto due titoli NCAA con UConn, tre Wade Trophies e due premi come miglior giocatrice collegiale della Nazione.
L’annuncio di Moore di non prendere parte alla stagione 2019, quindi, ha scioccato l’intero mondo dello sport. Moore era sinonimo di WNBA e basket femminile, e la numero 23 era in procinto di cementare la propria Legacy come miglior giocatrice di tutti i tempi. L’uscita di scena di Maya al picco della propria carriera ha pochissimi eguali nella storia, come ha ricordato la sua allenatrice: “In 30 anni di mestiere non mi è mai capitato qualcosa del genere, e non conosco nessuno a cui sia capitato”.
Il sociologo e attivista Harry Edwards ha avvicinato il fenomeno delle Lynx ad altri grandi atleti e difensori dei diritti civili, affermando che la nativa di Jefferson City dovrebbe essere ricordata per il suo impatto in campo e fuori, insieme ad altre grandi figure dello sport americano.
“Quello che sta facendo Maya è onorare la tradizione di Muhammad Ali, seguendo un cammino simile a quello di Colin Kapernick”.
La Storia, purtroppo, ha riconosciuto sempre troppo poco l’apporto delle atlete alla lotta per la giustizia sociale. Se tutti ricordano i cinque giocatori dei St. Louis Rams, NFL, che alzano le mani come a dimostrare di essere disarmati per solidarizzare con le proteste del 2014, in pochi ricordano ciò che ha fatto Ariyana Smith, cestista di Knox College e prima atleta a manifestare con il movimento BLM. Se in tanti ricordano Kap e tanti altri giocatori NFL che si inginocchiano durante l’inno nel 2017, decisamente meno ricordano che la prima squadra a inginocchiarsi interamente durante l’esecuzione dello Star-Spangled Banner sono state le Indiana Fever nel 2016.
Edwards ha posto le radici di questa disparità nell’ancora radicata concezione di predominio dello sport maschile sul femminile. In molti non rispettano le atlete in quanto tali, e per questo i loro sforzi vengono spesso sminuiti.
“Le donne sono state sempre emarginate, c’è sempre stata riluttanza a giudicarle come sportive di livello: la sfida di Maya, quindi, non riguarda solo la giustizia sociale, ma anche l’equità di genere. Ci sta dicendo: ‘State capendo il mio sforzo?’.Fin quando lo sport femminile non sarà comparato in tutto a quello maschile e Moore non sarà vista come una delle persone migliori di sempre a giocare a questo gioco, non si potrà comprendere a pieno il gesto che ha fatto”.(Harry Edwards)