Una riflessione sul “crescente, imperituro, sacrosanto eppure vagamente disturbante potere che LeBron James esercita sulla Lega”.

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“In the NBA, all you really need is one guy”


(Kevin Durant, parlando dei sorprendenti progressi e delle prospettive future dei Sacramento Kings)

Pur rimanendo un essere umano di non semplice decifrabilità persino per chi gli sta attorno nel quotidiano, Kevin Durant, soprattutto ultimamente, non disdegna di parlare alla stampa e di farlo con una (almeno apparente) franchezza che spesso non appartiene i suoi colleghi sportivi in giro per il globo.

Ora, cosa c’entrano le parole di Durant riferite agli stupefacenti Sacramento Kings (che in estate avranno 60 milioni di spazio salariale disponibile – KD è chiaro che se dici certe cose poi uno si ritrova a sognare scenari che … lasciamo perdere, ma abbiamo un sogno!!) con un discorso sul crescente, imperituro, sacrosanto eppure vagamente disturbante potere che LeBron James esercita sulla Lega cestistica più importante del Mondo? Niente. Appunto. O quasi.

Durant dice una verità. Sintetica e assoluta. La NBA è una lega di giocatori, di star e di superstar. E una squadra, per poter guardare con fiducia al futuro, per poter sperare in gloria titoli superfatturati e giocatori migliori di quelli che ha, ha bisogno di una cosa sola: un giocatore. Uno dei 15 (?) che fanno la differenza per davvero. Basta un giocatore per mettersi sulla mappa, potenzialmente, per 15 anni.

Se hai il giocatore, tutto il resto può seguire. Ma se hai il giocatore, quel giocatore avrà te.

Sappiamo tutti molto bene chi è stato il giocatore più forte negli ultimi 10 anni.

Sorprendentemente, forse, ancora lo è. LeBron James. Il giocatore più forte del Mondo, e di conseguenza il più potente.

In un articolo di qualche mese fa avevamo parlato di come – nel solco di un percorso storico avviatosi prima della sua nascita – LeBron James sia il leader pratico del modo di intendere l’essere superstar nella NBA di oggi. Tutta la carriera di LeBron può essere vista come un’enorme, continua, affermazione del proprio potere, tecnico prima di tutto, ma ovviamente non solo.

Che sia bello o meno, nel contesto in cui viviamo le ramificazioni del potere di una superstar delle dimensioni di LeBron James esulano naturalmente dal gioco che lo ha reso famoso e si allacciano a praticamente ogni aspetto della vita che la sua persona sfiori. LeBron influenza, anche al di là della propria volontà, per il semplice fatto di essere LeBron. E influenza sotto molti più aspetti di quanti sarebbe presumibilmente sensato influenzasse un giocatore di basket. Qui, noi ci limiteremo a parlare di come influenza il suo Mondo, la NBA, e non sul campo.

Più di chiunque altro prima di lui, LeBron ha deciso di essere padrone assoluto della propria legacy. Ha scelto in quali squadre giocare, quando, per quanto, per quanti soldi, con che tipo di contratto. Dicono, con quali compagni, per quali allenatori, sotto quali GM. È risaputo che a LeBron non piaccia essere considerato allenatore e General Manager occulto di ogni squadra di cui faccia parte, ma il ragazzo ha certamente aiutato questa percezione a farsi strada.

La retorica e l’attenzione morbosa che lo circondano, l’amore della stampa per lui e il bisogno che essa ha di scandagliare ogni sua parola e movimento, il fatto che dovunque vada sia la principale attrazione presente, sono fattori che non rendono facile stargli accanto per chi abbia l’ambizione di essere grande quanto lui, per chi voglia brillare di luce propria. Kyrie Irving è stato il primo a dire: “Tutto questo non fa per me”. LeBron non ci è rimasto bene, verosimilmente la sua stima nei confronti del giovane commilitone è aumentata, le loro strade si sono separate, il resto è Storia.

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Se fino a un paio di anni fa sembrava impossibile che qualcuno non volesse giocare con James, oggi il partito di quelli che “preferisco provare a cavarmela da solo” pare nutrire numerosi adepti.

Al di là di Phil Jackson e di chi mal sopporta la “posse” che circonda LeBron e ne denuncia l’eccessivo potere – a proposito delle dichiarazioni di LeBron su Anthony Davis un anonimo General Manager di una squadra della Western Conference ha dichiarato: “Non mi preoccupa LeBron che parla – contro le regole – di Davis con la stampa, il problema è che LeBron e Paul – Rich, il suo agente (ndr) – sono una sorta di boss mafiosi della NBA al momento” – sono i giocatori stessi, soprattutto le star, a chiedersi se vogliano essere parte di un simile baraccone. Se vogliano (ne hanno parlato Durant e Tyson Chandler) adattare il loro gioco a LeBron come hanno dovuto fare negli anni Chris Bosh prima e Kevin Love poi, se vogliano essere parte di un ambiente in cui inevitabilmente “ruota tutto attorno a Bron”. Sono sacrifici necessari per stargli vicino, per provare a vincere con lui.

Durant ha detto che l’atmosfera intorno all’attuale numero 23 dei Lakers può essere “tossica”, e che capisce molto bene perché diverse star possano preferire non averci a che fare. “Non tutti in questa Lega sono dei Kyle Korver”. Già solo chi ama giocare con la palla in mano, forse non è adatto a essere compagno di James.

LBJ è una multinazionale vivente. Le sue prese di posizione non sono mai casuali e affrettate, è molto raro che dica qualcosa di non precedentemente studiato e calcolato. Se il suo modo di intendere il proprio ruolo all’interno della squadra, delle Lega e della comunità è stato di riferimento per molti altri, James rimane prima di tutto un giocatore di basket con una disperata fame di vittoria. Pronto a tutto pur di vincere, voglioso di condividere il campo con i migliori compagni possibili. Se oggi esistono i superteam, probabilmente è perché è esistito LeBron James.

Negli ultimi giorni il Re ha riportato volutamente la stampa sulla questione Anthony Davis dicendo che lui è sempre stato così, che giocare con i grandi gli è sempre piaciuto e che pratica il recruiting, con fortune alterne, dal 2007. Certamente LeBron voleva far sapere ad AD che è sempre, eccome, nei pensieri dei gialloviola, e il fatto che Davis da quest’estate sia rappresentato dallo storico amico di LeBron Rich Paul non lascia dormire sonni tranquilli a più di venti GM di questa disgraziata Lega (gli altri amministrano franchigie sufficientemente sgangherate da non doversi preoccupare di cose che avvengono ad altezze così elevate).

Rispetto al passato, LeBron ha deciso di legare il proprio nome a quello di una franchigia che già di per sé attrae campioni, e ha deciso di legarcelo per i prossimi quattro anni, senza la necessità di avere una squadra pronta subito, senza pretendere l’acquisizione immediata di un’altra superstar. Convinto che l’aiuto necessario, prima o dopo, sarebbe inevitabilmente arrivato.

Ora: è normale, giusto, che un giocatore di una franchigia celebri la firma di un giocatore di un’altra franchigia con la sua (stessa) agenzia di rappresentanza? È normale che prima di tornare a Cleveland annunci in una lettera quanto è entusiasta di andare a giocare con una serie di giocatori (incluso Dion Waiters!) escludendo la prima scelta assoluta dell’ultimo draft che guarda caso verrà tradata nel giro di un mese? È normale che sovverta l’esplicita chiamata del suo capo allenatore nei secondi finali di una partita di Playoffs, e che poi lo dica? È normale che Kentavious Caldwell-Pope abbia guadagnato più di 20 milioni di dollari negli ultimi due anni? Che Phoenix tagli Chandler (finalmente in scadenza) a mesi dalla trade deadline?

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Gli esempi potrebbero proseguire, copiosi. Il succo è: è normale che un giocatore sia così potente da essere più importante della franchigia in cui gioca, anche se è la più gloriosa della storia della NBA, e talmente potente da rischiare di diventare più grande dello sport stesso che pratica? Insomma, è normale che LeBron James tenga l’NBA per le palle?

Certo che no. Non è normale, e le contraddizioni, che ci sono, fanno storcere il naso a molti. Oggi se ne parla più che in passato. Qualche collega di rango non approva. Ma non è colpa di nessuno. Perché LeBron James e “normale” sono due parole non comprese nello stesso dizionario.

Giusto o non giusto, l’universo di LeBron James muove su terreni diversi rispetto a qualsiasi altro universo, e nell’analizzarlo siamo costretti a cambiare le scale di valori che tendiamo solitamente ad applicare.

Perché la realtà ci obbliga a farlo, e la grandezza di quest’uomo rende l’operazione legittima.

Hanno chiesto a Gregg Popovich delle dichiarazioni di Durant sull’ambiente tossico intorno a LeBron e se non sia controintuitivo che le star possano preferire non giocare con James. L’allenatore dei San Antonio Spurs ha risposto: “Non mi interessa”. E poi ha aggiunto che gli sembra che LeBron abbia avuto un impatto positivo ovunque sia andato.

E in effetti è proprio così. Le chiacchiere stanno a zero. LeBron James è LeBron James, al di là del normale e del giusto, al di là del bene e del male.

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