L’anno dopo le surreali Finals del 1999, i Knicks erano a un punto di svolta nella storia della franchigia.


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Questo articolo, scritto da Michael Corvo per The Knicks Wall e tradotto in italiano da Luca Rusnighi per Around the Game, è stato pubblicato in data 24 luglio 2020.


Per i New York Knicks, l’inizio del nuovo secolo coincise con la fine di un’era.


Con il regno di Patrick Ewing al tramonto, a New York raggranellarono abbastanza energie per far seguire alle improbabili Finals del ’99 un’annata da 50 sudatissime vittorie e un’altra run nei Playoffs.

La situazione a New York

I Knicks si aspettavano di dire la loro anche nella stagione 1999/2000, contando su un roster né giovane né zeppo di stelle, ma comunque rispettabilissimo.


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Scott Layden

era stato nominato GM sei settimane dopo aver scelto Frederic Weis – il quale, umiliato da Vince Carter quell’estaA.te, non si sarebbe mai visto nell’NB

Se non contiamo l’arrivo di John Wallace e quello di Andrew Lang, la prima mossa importante di Layden fu l’estensione di contratto di Latrell Sprewell, che firmò per 5 anni e 61.8 milioni di dollari. Le cose erano andate per le lunghe dopo che Sprewell si era volatilizzato e aveva perso il training camp per guidare attraverso l’America e presenziare a una causa civile per violazioni del codice stradale (sic). Quantomeno irritati, i Knicks minacciarono di cedere il nativo di Flint ancora prima di chiudere le trattative. Il nuovo accordo presupponeva un’inclusione nello starting five e l’ascesa a primo terminale offensivo, alla pari con Allan Houston.

Il punto di domanda più grosso e il primo aspetto da investigare era rappresentato da Patrick Ewing, anche lui in scadenza di contratto e con numeri in calo.

“I Knicks hanno tutte le carte in regola per il titolo… A parte un centro su cui contare. […] Non basta fare proclami: Ewing deve tornare a posto fisicamente prima che New York possa anche lontanamente pensare all’anello.” (The New York Post)

I blu-arancio potevano comunque fare affidamento su tanti volti noti e navigati. Guidati da coach Jeff Van Gundy e dallo specialista difensivo Tom Thibodeau, avrebbero finito per superare le aspettative.

La stagione

A Sprewell e Houston andava la responsabilità di creare tiri, fiancheggiati dai “big men” Ewing e Larry Johnson.

Marcus Camby, Kurt Thomas, Charlie Ward e Chris Childs contribuivano in difesa.

“Non ci sono superstar, ma tanti che sanno fare buone giocate e segnare dei punti. Ogni sera potrebbe essere uno diverso.” (Latrell Sprewell)

I Knicks erano l’incarnazione del gioco lento, l’equivalente cestistico dei Baltimore Ravens di football nel 2000. Tenevano un ritmo bassissimo ed erano 27esimi in NBA per conclusioni tentate e punti segnati (92.1). Tiravano bene da tre (37.5%), ma non molto spesso (11.4 tentativi a gara).

La Lega aveva eliminato l’hand-checking per promuovere un gioco più fluido, ma si era dimenticato di farlo sapere a Van Gundy. I newyorchesi non erano belli da vedere. Ssi affidavano a una mole enorme di post-up, long-two e tiri dal mid-range. E vincevano.

“Questa Lega vive di balletti e highlights. Noi siamo una squadra vecchio stampo, tutta sudore e spintoni. A tanti non interessa vedere questo tipo di basket, ma noi non siamo qui per una gara di popolarità.” (Chris Childs)


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Avete presente i Warriors del 2015? Ecco, tutto l’opposto.

I Knicks vivevano perlopiù d’isolamenti. Sprewell e Houston facevano la parte del leone (15.9 e 15.5 tiri a partita rispettivamente), con Ewing (12.5) e Johnson (9.3) a seguire a ruota. New York era terzultima per assist (Childs e Ward insieme ne avevano 8.2 a sera) e un playmaker puro le avrebbe fatto tremendamente comodo. E tuttavia, era abbastanza efficiente in attacco per sopperire in difesa.

Come con i già citati Ravens, segnare contro i Knicks era davvero un’impresa. La loro difesa era seconda per punti concessi (90.7) e tentativi (33.1), e terza per percentuale di tiro degli avversari.

Di solito la rotazione era limitata ad otto giocatori. Wallace, Lang, Rick Brunson e Chris Dudley (poi candidato governatore dell’Oregon e l’atleta con la peggior percentuale dalla lunetta di tutta la Lega) si spartivano scampoli di partita. Il quintetto (Ward, Houston, Sprewell, Johnson, Ewing) viaggiava a +2.5 per rating offensivo nella stagione ed era di gran lunga la lineup più utilizzata (sì, Van Gundy ha davvero fatto da musa a Thibodeau). Nei minuti finali, la lineup migliore in campo vedeva Camby, Childs o Thomas invece di Ewing.


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Johnson, al suo penultimo anno a causa di una schiena malandata, riuscì comunque a giocare 36.2 minuti (!) in 70 gare, con 10.7 punti di media. Camby, che dava alla squadra un’iniezione di energia, era fin troppo “qualificato” per fare il sesto uomo – e non mancava di farlo notare. Le sue statistiche di quell’anno: 14 punti, 10.7 rimbalzi e 2.7 stoppate in 36 minuti, con il secondo WS/48 (ossia il contributo stimato dei singoli in una vittoria) della sua carriera.

Houston, il solo Knick presente all’All-Star Game ad eccezione di Van Gundy, fece registrare 19.7 punti a sera con il 52.5% di eFG, ma poco altro e soprattutto in modo ondivago. Sprewell mise a segno 18.6 punti con molta più costanza, e la sua tenacia in entrambi i lati del campo si fece sentire.

La riluttanza di Houston nello sposare il suo ruolo di uomo-franchigia fu un problema che durò tutto l’anno, così come la sua tendenza a rimanere a corto di fiato nei finale di gara. Col passare della stagione, i Knicks arrancavano e a Houston continuava a tremare la mano.

Ad onor del vero, come dimostrato dal bilancio post-All-Star (21-14), giocare per questo coaching staff era davvero estenuante. Né Houston né Sprewell persero una singola partita e si classificarono tra i primi tre pdell’NBA er minutaggio a gara. La squadra avrebbe dovuto distribuire meglio il carico di lavoro.

“I Knicks vanno troppo spesso in letargo, cosa che alla lunga potrebbe costargli il fattore campo.” (The New York Post)

“Il problema non sono la stanchezza e la fatica delle gare precedenti; è la stanchezza a partita in corso.” (Jeff Van Gundy)

E poi c’erano le continue speculazioni su Ewing. I suoi errori nei Playoffs precedenti, il coinvolgimento dello scandalo legato al Gold Club di Atlanta e l’imminente rinnovo contrattuale avevano messo al microscopio il centro giamaicano, che quell’anno avrebbe festeggiato la gara numero 1000 nella Grande Mela.

L’ex stella di Georgetown, tuttavia, si adattò meravigliosamente al suo ruolo di terzo violino, una volta recuperato dall’infortunio al tendine d’Achille in dicembre: 15 punti e 9.7 rimbalzi di media, e molto spesso fu lui la prima opzione offensiva nel crunch time (certamente non Houston). Ogni tanto riusciva persino a portare indietro le lancette, come in un back-to-back ad aprile dove mise a referto 30 punti e poi 28 con 18 rimbalzi.

Ciononostante, non c’era grande ottimismo per la stagione dei Knicks.

“Nei Playoffs si avranno con Ewing in campo gli stessi risultati dell’anno scorso, ottenuti senza di lui?” (The New York Post)

I Playoffs

I Playoffs del ’99 erano stati da brivido. Quelli del 2000 furono tutti lacrime e sangue.

Al primo giro, i Knicks si sbarazzarono in tre gare dei pericolosi Toronto Raptors, forti di 47 vittorie in stagione regolare e con Carter e McGrady al comando, assistiti da veterani quali Muggsy Bogues, Dell Curry, Antonio Davis e il motivatissimo ex Charles Oakley. Toronto aveva battuto New York già due volte quell’anno e Carter aveva distrutto Sprewell con 32.6 punti di media. Non a caso Van Gundy aveva definito i Raptors “l’ostacolo più difficile che abbiamo incontrato” nel suo periodo al Madison.

In Gara 1 i Knicks misero la museruola a Carter, limitato a 3/20 dal campo. Poi si assicurarono Gara 2 con un jumper di Sprewell, dopo essere stati sotto di 15. (Da notare che in entrambe le occasioni, Houston fece virgola nel quarto periodo). E nell’ultima partita, Johnson suonò la carica per recuperare da -14 e mise una tripla pesantissima di tabellone, festeggiata con il suo celebre “LJ”.

Fu poi la volta dei Miami Heat (52-30 in Regular Season). Ewing e soci li incontravano per la quarta volta di fila nei Playoffs, un anno dopo quel tiro di Houston sulla sirena che aveva mandato a casa Pat Riley. Come da copione, fu una serie combattuta con le unghie e coi denti.

Sprewell (6/25 dal campo) arrancò nei primi due confronti. Houston perse tre palloni alla fine di Gara 1 e fece 3/14 in Gara 2. Ma la difesa di New York tenne duro, e aiutati da una Miami disastrosa ai liberi, i Knicks chiusero la pratica sull’82-76.

In Gara 3, Ewing fece impazzire il Madison con un canestro pesantissimo con 2.6 secondi sul cronometro, mandando la partita ai supplementari. Lo stesso Ewing, però, commise un errore-chiave dalla lunetta nell’overtime e Anthony Carter mise a segno quel famigerato arcobaleno dietro il tabellone che consegnò la vittoria agli Heat, 77-76.

“Nessuno si ricorda che è stato Ewing a metterli nella posizione di vincere ieri […] Perché poi si dovrebbe trovare un altro colpevole e lui è quello che è qui da più tempo, per cui puntiamo tutti il dito su Patrick [… ] In un certo qual modo, è diventato il simbolo dell’essere vicini a qualcosa e allo stesso tempo così lontani”. (The New York Times)

Gara 4 vide Charlie Ward segnare gli ultimi 9 punti nella sua prestazione più bella di sempre (football universitario a parte), regalando la vittoria a New York per 91-83. Miami si aggiudicò senza problemi Gara 5, dopo che lo spostamento d’aria di un aereo in fase di decollo aveva distrutto l’auto di Jeff Van Gundy. I Knicks recuperarono uno svantaggio di 18 punti e si imposero in Gara 6 per 72-70 (proprio quello che l’NBA aveva in mente quando aveva pensato alle regole da cambiare). Il 37enne Ewing giocò 42 minuti, mettendo il suo marchio con un jumper, una schiacciata in tap-in e un recupero negli ultimi 3 minuti e mezzo.

In Gara 7, fu ancora Ewing a segnare il sorpasso con una schiacciata, mettendo la parola fine a una sudata vittoria in trasferta contro gli acerrimi rivali della Florida. Gli Heat si lamentarono degli arbitri nel post-partita. Hardaway commentò, riferendosi al direttore di gara Dick Bavetta:

“Ecco… ecco perché lo chiamano Knick Bavetta.” (Tim Hardaway)

I Knicks erano stanchi per la rapida successione di gare e i Pacers li presero alla sprovvista. Indiana infilò 10 triple su 15, dominando Gara 1. New York venne fatta a pezzi sotto i tabelloni in Gara 2, e Ewing si procurò una distorsione al ginocchio.

Ai ragazzi di Van Gundy avrebbe fatto molto comodo godere del fattore-campo contro gli Indiana Pacers nelle Finali di Conference. I Knicks avevano totalizzato 33 vittorie e 8 sconfitte al Garden fino a quel punto, imponendosi 17 volte su 41 fuori casa.

Indiana, dal canto suo, era forte di 56 vittorie stagionali, vantava il miglior Offensive Rating della Lega, era pronta a vendicarsi del gioco da quattro punti subito da LJ l’anno prima e voleva mandare Reggie Miller alle sue prime Finals. E in casa, aveva un record di 36-5.


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Ai Knicks era talvolta mancata la concentrazione durante la stagione. Ma come diceva Van Gundy:

“Quando ci sentiamo sotto pressione, mostriamo grandi cose.” (Jeff Van Gundy)

In Gara 3, nonostante un Ewing fuori servizio e Camby costretto ad abbandonare nella prima metà, i Knicks risicarono una vittoria grazie ai 60 punti di Sprewell e Houston. In Gara 4, ancora malconci, misero Dudley nello starting five e si imposero per soli due punti. Johnson ne mise 27 con 5/5 da tre. (Da notare che nella serie, New York fece 30/70 dalla distanza e Indiana tentò 56 triple in più).

“Ai Knicks le avversità servono come l’aria. Non gestiscono bene i periodi ‘piatti’. Rendono al meglio quando devono sfidare la logica, la gravità e tremende difficoltà.” (The New York Times)

Avevano spesso bisogno anche di Ewing, ma erano più rapidi e versatili senza di lui. Nella post-season 2000 contro Indiana, con il #33 in panchina, New York aveva un Net Rating e Offensive Rating migliore. In Gara 5, però, finirono la benzina.

I Pacers recuperarono da -18 e vinsero 88-79. In Gara 6, Ewing soffriva di tendinite al piede, Sprewell si era fratturato un alluce, Camby aveva una distorsione al ginocchio e Johnson era afflitto da fascite plantare. Reggie Miller fece a pezzi Sprewell nel quarto periodo e diede il benservito ai Knicks al Garden (93-80).

Ewing mise a referto 18 punti e 8 rimbalzi nella sua ultima partita in maglia NY. E alla fine, non fu certo sua la colpa della sconfitta.

Cosa successe dopo

Van Gundy sapeva benissimo che era la fine di un’epoca.

“Le nostre condizioni di forma non miglioreranno l’anno prossimo. Non voglio dire che non saremo in grado di carburare nel corso della stagione, ma è chiaro che questo sia lo stato attuale delle cose.” (Jeff Van Gundy)

Dopo il rifiuto da parte di Grant Hill, tornarono in campo con una squadra praticamente identica. Con un’eccezione.

Patrick Ewing aveva ancora un anno di contratto a 14 milioni. L’estensione a cui mirava avrebbe costretto i Knicks a pagare molte più tasse. Dopo un primo tentativo andato a vuoto, il suo agente riuscì a concludere una trade che mandò l’icona di NY a Seattle, Dudley e una prima scelta a Phoenix e Wallace a Dallas, in cambio di Glen Rice, Luc Longley, Travis Knight, Vernon Maxwell e due prime scelte nella Grande Mela.

Solo Rice, Longley e Knight indossarono la canotta blu-arancio, e le due scelte vennero utilizzate da altre franchigie.


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Nel 2000/01, i Knicks vinsero 48 gare e vennero sconfitti al primo round da Toronto (neanche a dirlo).

Layden prolungò il contratto di Houston nel 2001, occupando qualunque spazio nel salary cap senza avere niente in mano, e venne sostituito da Isiah Thomas nel 2003. La stagione 2004/05 vide solo uno della vecchia guardia restare a New York: Kurt Thomas.

Nel 2016, Scott Layden diventò il general manager dei Minnesota Timberwolves fino a fine 2020, assunto lo stesso giorno di Tom Thibodeau. Che dall’anno scorso è capo allenatore dei Knicks ed è stato nominato Coach of the Year alla fine di questa stagione. I casi della vita.