L’ex ala dei Miami Heat parla del suo ruolo all’interno della franchigia, del potere dei dati e della grandezza di LeBron James e Kobe Bryant.

Questo articolo, scritto da Martenzie Johnson per The Undefeated e tradotto in italiano da Yuri Pietro Tacconi per Around the Game, è stato pubblicato in data 4 ottobre 2020.


L’ex ala NBA Shane Battier, dopo 13 anni di carriera in campo, è nella sua quarta stagione da membro della sezione analisi dei Miami Heat – le ultime tre come vicepresidente del team di Basketball Development and Analytics.


In questo ruolo Battier, che nella sua carriera, oltre che per gli Heat, ha giocato per i Memphis Grizzlies e gli Houston Rockets, lavora come “profeta” per la franchigia, usando dati predittivi per analizzare la pallacanestro e mettere Miami nella migliore posizione possibile per avere successo.

In teoria, ciò ha portato frutti, dato che gli Heat hanno raggiunto quest’anno le NBA Finals (perse contro i Los Angeles Lakers), sei stagioni dopo aver perso LeBron James in free agency e un anno dopo il tour di ritiro di Dwyane Wade.

Anche se Battier non può dire molto sul suo ruolo in tutto ciò, si può dare credito al lavoro di analisi (e, ovviamente, allo scouting) per l’acquisizione di giocatori come Duncan Robinson, Tyler Herro, Kendrick Nunn e Bam Adebayo, scelte al Draft e free agent che hanno avuto un ruolo enorme nel riportare gli Heat in contenzione nella Eastern Conference.

Figlio di una madre bianca e un padre nero, Battier è uno dei pochi afroamericani a lavorare nel settore analytics nell’NBA, un lavoro che è più probabile vada a un laureato al MIT (leggere: bianco) piuttosto che a un ex-giocatore (leggere: nero). La mancanza di diversità nell’analisi dei dati è un problema ben conosciuto, e Battier spera di renderlo più accessibile, mentre il resto del mondo lotta con il razzismo sistemico.

Shane ha parlato con The Undefeated durante le Finals 2020 del suo ruolo nella franchigia, del potere dei dati e della grandezza di James e Kobe.

LeBron ha detto che la sconfitta degli Heat in Gara 2 contro i Mavs nelle Finals 2011 “brucia ancora oggi”. Tu ti sei unito al team una stagione dopo: che cosa hai visto, quando sei arrivato lì?

Non ero mai stato con un team così affamato. Mai, mai. Sono entrato dalla porta il primo giorno ed ero tipo: porca vacca, questi sono veramente arrabbiati! E non solo i giocatori, ma anche Pat Riley, coach Spoelstra. Anche i coordinatori video, era palpabile.

Non mi dimenticherò mai la prima partita, a Natale, dopo il lockout… era la notte della consegna degli anelli. I Mavs hanno ricevuto i loro anelli, e noi eravamo lì ad aspettare, nel tunnel, di uscire per giocare. E nessuno ha parlato, volevamo solo uscire di lì e distruggere Dallas. Siamo usciti e li abbiamo battuti di 30/40 punti [gli Heat erano avanti di 35 punti a metà del terzo quarto, prima di vincere 105-94, ndr]. E ho pensato: Oh, quest’anno vinciamo. Vinciamo.

Hai giocato con e contro LeBron, hai giocato contro Kobe. Che cosa rendeva quei due così tanto migliori di chiunque altro?

I due grandi con cui ho giocato, insieme e contro. Ovviamente i loro talenti fisici erano semplicemente diversi. Sono nati con un set di mezzi fisici che nessun altro ha. Ma ci sono un sacco di ragazzi con cui ho giocato che avevano grandi mezzi fisici, ma non avevamo la componente mentale.


FOTO: NBA.com

I veri, veri grandi hanno un innegabile spirito competitivo. Fanno qualunque cosa serva per vincere. Fanno qualsiasi cosa per ispirare i loro compagni di squadra, in vari modi. La natura meticolosa con cui si prendono cura dei loro corpi e fanno in modo di essere sempre al loro meglio fisicamente è a un livello superiore. Per essere un giocatore speciale come loro, non puoi sottovalutare la quantità di lavoro che ci va messo. È davvero un lavoro a tempo pieno.

E io sono stato professionale, ho lavorato davvero duro, ma non penso di aver lavorato duro come quelli là. Ho bevuto fin troppa birra. Ma è stato stimolante vedere i veri grandi da vicino, da entrambi i lati, e capire che cos’è la vera grandezza.

Cosa pensi della diversità e dell’analitica nell’NBA? Cosa può fare la lega, e il basket in generale, per migliorare in questo?

È essenziale creare opportunità in generale. Non ho fatto un gran lavoro in quello. Sono colpevole. E ne sono consapevole, mentre costruisco il mio dipartimento. Il mio dipartimento è molto, molto giovane. Ha solo 3 anni. Ma capisco le insidie che potremmo avere se continuiamo nel modo in cui stiamo facendo, il pericolo di costruire praticamente delle camere di risonanza di persone che hanno lo stesso background e che pensano allo stesso modo, e tra tutti io dovrei saperlo.

Non sono stato preparato nella maniera classica. Il mio background? Ho imparato da Daryl Morey e Sam Hinkie, a Houston, il potere dei dati e dell’analitica. E ho compreso i vantaggi che posso ottenere dal capire veramente i dati, cosa sono e cosa non sono nel gioco del basket.

E io sono laureato in religione. Non sono laureato in matematica, e probabilmente sono la cosa più lontana possibile dall’analitica, ma ho capito le implicazioni e compreso il pragmatismo dei dati. E questo mi ha reso un difensore da All-NBA, e poi mi ha permesso di essere due volte campione del mondo, e di restare in campo nei quarti quarti, e avere una carriera dannatamente buona per qualcuno che non è granché atletico.

Il mio punto di forza potrebbe essere che non sono come tutti gli altri e penso in modo diverso. E sono stato in trincea: capisco, quando vedo le statistiche, cosa è vero, cosa puoi implementare e cosa è solo teorico. E penso che questo sia un enorme vantaggio.