Una squadra venuta dal nulla, capace di realizzare il più grande e inaspettato upset della storia NBA.

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La stagione 2006-2007 dei Golden State Warriors fin dalla prima partita di Regular Season sembra destinata a concludersi come le passate dodici: niente Playoffs e record ben al di sotto del 50%. Era il 1994 quando Don Nelson aveva guidato la squadra alla postseason per l’ultima volta, quando a dettare legge nella Baia erano Mullin, Webber e Sprewell. Da allora, dopo la cacciata di Nelson, si erano avvicendati vari allenatori che avevano portato una franchigia gloriosa sull’orlo del baratro.

Nell’annata 05-06 Mike Montgomery aveva vinto solo 34 partite, lo stesso numero dell’anno precedente, e per questo era stato esonerato al termine della stagione. Chris Mullin, diventato General Manager, riporta Don Nelson sulla panchina e comincia una campagna di rafforzamento in vista della stagione.

Il Roster

I giocatori, confermati al centro del progetto, sono Baron Davis e Jason Richardson. Andris Biedrins è il centro titolare e come ali ci sono Troy Murphy, Mike Dunleavy e Mickael Pietrus. Derek Fisher in estate viene scambiato con Utah per il più giovane Keith McLeod, che arriva assieme a Andre Owens e Devin Brown (quest’ultimo viene però svincolato alla fine del training camp). Viene firmato anche Matt Barnes, che in tre anni aveva già cambiato quattro squadre. Dalla panchina il sophomore Monta Ellis, Diogu e Foyle.


La squadra inizia così la stagione ma i risultati stentano ad arrivare. Il 17 gennaio Mullin corre ai ripari con una trade che rivoluziona il roster e cambia la storia: fuori Murphy, Dunleavy, Diogu e McLeod, dentro da Indiana Al Harrington, Stepehen Jackson, Sarunas Jasikevicius e Josh Powell.

Come Giocavano

Per molti il concetto di “small ball” è nato con i Warriors di Curry, Thompson e Green. In realtà questo tipo di gioco nasce sì a Golden State, ma nel gennaio 2007.

Don Nelson brevetta il quintetto piccolo con Davis, Richardson, Barnes, Jackson ed Al Harrington come centro. In quell’epoca “Baby Al” è tutto fuorché un centro. Essendo alto 206 cm e pesando 104 chili è un’ala fatta e finita, dotata anche di un buon tiro dalla distanza, ma viene utilizzato come cinque atipico.

Il gioco proposto da Nelson è quello che ci aspetteremmo oggi da una squadra con il quintetto piccolo: transizione e tiro da tre. I Warriors infatti erano primi nella Lega per pace, per numero di tiri tentati dal campo e per triple tentate. Eccellevano anche in altre statistiche, infatti erano in top 4 in punti segnati, palle rubate, assist, stoppate e percentuale dal campo.

Tutto molto simile ai Golden State attuali, ma a differenza di Curry and co. non erano una grande difesa, avendo il maggior numero di punti concessi agli avversari.

Come possiamo vedere nel video, questa squadra vive e muore con il tiro da tre. Il tiro in transizione nei primi secondi dell’azione è la soluzione principale e quando le triple entrano con costanza la difesa avversaria può fare ben poco, anche per la difficoltà di accoppiamento in transizione.

Le altre soluzioni sono molto semplici ma efficaci. Ci si affida molto alla penetrazione centrale fino al ferro e al penetra e scarica. Al di fuori di un pick and roll centrale non ci sono troppe soluzioni specifiche: è lasciato tutto all’iniziativa dei singoli e ai loro 1c1.

La Regular Season

L’inizio di stagione non è dei migliori. Si parte subito con una sconfitta in casa contro i Lakers orfani di Bryant – non proprio una squadra irresistibile, senza il 24 – con Ronny Turiaf che segna 23 punti. Il riscatto arriva la partita dopo contro dei modesti Trail Blazers, per poi perdere la terza partita contro Utah. Il cammino della squadra procede di questo passo fino a gennaio, quando il record è di 16 vinte e 17 perse. A quel punto avviene la trade che cambia il destino della squadra.

L’assestamento iniziale dovuto alla rivoluzione porta ancora qualche incertezza e la squadra arriva all’All-Star Break con un record di 25-29. Avendo dato tempo ai nuovi di entrare nei giochi, il vero salto di qualità arriva nei mesi di marzo, in cui vincono 8 delle 14 partite, ma soprattutto ad aprile, chiuso con 8 vittorie e 1 sola sconfitta.

Record finale di 42-40 valevole per l’ottavo posto ai Playoffs.

Playoffs

L’ottavo posto significa incontrare la prima della classe, ovvero Dallas, che aveva dominato in lungo e in largo la stagione (67-15 il record) e che veniva da una finale persa l’anno prima, dopo esser stati in vantaggio 2-0. I Mavericks avevano dimostrato di essere la miglior squadra della NBA ed erano guidati da un Dirk Nowitzki appena nominato MVP. Con queste premesse non ci sarebbe dovuta essere storia per i poveri Warriors, se non che durante la Regular Season erano stati l’unica squadra in grado di “sweeppare” i Mavs vincendo tutti e tre gli incontri.

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Nasce così uno degli slogan che avrà più successo e risonanza nella Lega: quel “We believe” che ha riportato una città intera a tifare per qualcosa di grande dopo anni di oblio.

In fondo un po’ tutti sostenevano quella squadra. Nata quasi per caso, praticamente, però faceva divertire la gente con un gioco estremamente moderno.

Golden State contro Dallas era percepita come la miglior reinterpretazione di Davide contro Golia. Se abbiamo imparato qualcosa in questi anni è come il pubblico non possa fare a meno di provare empatia per gli underdog e così non solo la Baia era dalla loro parte, ma anche il resto della nazione.

Gara 1 va in scena all’American Airlines Center di Dallas e, nonostante qualche giornalista abbia segnalato il 3-0 nella stagione regolare, nessuno sembra preoccupato più di tanto. In molti profetizzano addirittura un 4-0. Le agenzie di scommesse avevano pronosticato come risultato favorito il 4-1 Dallas e la vittoria nella serie era data a -1100 (ovvero, in base al sistema americano: bisogna puntare 1100 dollari per vincerne 100).

Golden State però sorprende tutti e dopo un tempo in parità, prende vantaggio e continua a incrementarlo fino al termine. Risultato: vittoria 97-85 e pubblico in evidente stato di shock. Baron Davis manda a referto 33 punti con 4/7 dalla lunga distanza; Jackson ne aggiunge 23 con il 42% da tre. Il quintetto piccolo funziona anche in difesa, costringendo l’MVP Nowitzki a 14 punti con un pessimo 4/16 dal campo.

Gara 2 va come sarebbe dovuta andare Gara 1 e Dallas vince facilmente 112-99, mandando Dirk, Howard e Terry sopra quota 20 punti. Adesso tutti si aspettano il 4-1, la prima partita poteva essere considerata un passo falso.

Gara 3, invece, è un monopolio Warriors. Correndo in transizione distruggono i Mavs, che non riescono ad accoppiarsi al quintetto piccolo proposto da Don Nelson. Finale 109-91. In Gara 4 ancora una volta viene fatto valere il fattore campo e grazie alle ottime percentuali da tre Golden State si porta sul 3-1 nella serie. A questo punto in Texas comincia a insorgere grande preoccupazione: un’uscita al primo turno non sarebbe tollerabile per quei tifosi che si vedevano già a festeggiare il Larry O’Brien.

In Gara 5 Dallas ritrova sé stessa e batte un colpo, ma per vincere è necessaria una prestazione offensiva superlativa. 30 per il tedesco e altri cinque giocatori in doppia cifra. Si ritorna ad Oakland per la decisiva Gara 6, che per Dallas rappresenterà una vera e propria Caporetto.

Golden State mette in piedi uno show davanti ai propri tifosi, che assistono ad una performance di squadra superlativa. I Mavs vengono sepolti da una pioggia di triple che li condanna ad un eloquente 111-86. Sogni di gloria infranti e Oracle Arena in visibilio per festeggiare quella che dopo anni di assenza dai Playoffs è una vera e propria impresa sportiva. Di seguito il video della partita, in cui alla fine possiamo notare anche Charles Barkley con indosso la maglietta “We believe” – a dimostrazione di quanto quella squadra fosse entrata nel cuore di tutti.

Realizzata l’impresa è necessario confermarsi e Utah sulla carta dovrebbe essere un avversario abbordabile, dopo aver battuto la squadra più forte. Ma purtroppo così non è, e i Jazz chiudono comodamente la serie 4-1.

L’unico brivido per Utah è rappresentato dall’overtime in Gara 2, che avrebbe potuto svoltare la serie se fosse andato a favore dei Warriors. Il brivido, invece, per tutti gli appassionati di basket è dato da un gesto tecnico di Baron Davis. Quella serie verrà ricordata principalmente per una delle schiacciate più incredibili della storia:

Dallas ha perso contro l’unica squadra che poteva batterla, grazie alla small ball Warriors che però non ha sortito gli stessi effetti con Utah. La fisicità di Kirilenko, Boozer e Okur era troppo per quei Golden State.

Questa squadra, in ogni caso, ha consegnato ai posteri i primi accenni di quello che sarebbe diventato lo standard solo sette anni dopo: un quintetto piccolo composto da tiratori con un centro “leggero” per spaziare il campo come Harrington o con un rim protector e rim runner come Biedrins.

Questi Warriors sono una squadra che ha precorso i tempi e che ha innovato molto. Ha emozionato, non solo una città che era bramosa di tornare nel basket che conta, ma un’intera nazione.