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All’indomani del 3-0 nella serie contro Boston che rende la stagione di Philadelphia molto vicina alla sua conclusione, la “morale” che mette un punto a quest’annata (e non solo) dei Sixers è che la fortuna aiuta gli audaci, anche nello sport, mentre la sfortuna si accanisce contro chi pecca di arroganza.
Sfortuna, indubbiamente, ce n’è stata.
Arrivare ai Playoffs senza Ben Simmons – neanche a dirlo tassello fondamentale per la squadra di Brett Brown, soprattutto da un punto di vista difensivo (chiedere a Jayson Tatum, assoluto dominatore in G1 e G2 della serie) – è stato un duro colpo. Che probabilmente ha azzerato le chance di successo prima ancora che la post-season iniziasse.
L’accoppiamento con i Celtics al primo turno, poi, si è rivelato forse il peggiore possibile per Phila, ma da sesta classificata nella Conference (con meno del 60% di vittorie e un record peggiore rispetto agli ultimi due anni) era difficile chiedere di meglio.
Il naufragio di Phila, in ogni caso, riguarda più il progetto che la singola stagione. E siccome in questa sede stiamo parlando anche di sfortuna, è impossibile non tornare con la memoria all’eliminazione dai Playoffs dello scorso anno, avvenuta con quel clamoroso tiro di Kawhi Leonard in Gara 7 e quegli infiniti attimi in cui la palla ha “ballato” sul canestro, prima di finirci dentro. Fenomeno Kawhi – poi MVP delle Finals, con i Raptors sul tetto del mondo – e sfortunati i Sixers. Già, ma come detto: la sfortuna si accanisce contro gli arroganti.
E anche di arroganza, indubbiamente, ce n’è stata.
A prescindere dalla distribuzione delle responsabilità tra la gestione-Colangelo, quella di Elton Brand e la guida tecnica di coach Brown, quello che i 76ers hanno dimostrato è che, anche con solide fondamenta, la differenza tra “audacia” e “arroganza”, in NBA, fa la differenza.
Audace, coraggioso e per certi versi sportivamente “deprimente” era stato il disegno di Sam Hinkie, allontanato malamente da Philadelphia nonostante le sue idee estreme avessero sostanzialmente lasciato in eredità tre top-top-pick, ovvero Joel Embiid, Ben Simmons e Markelle Fultz. Con intorno un nucleo di giocatori da sviluppare, individualmente e collettivamente, per arrivare ad avere un roster competitivo per il titolo nel medio termine.
“Medio termine”, però, è diventato troppo poco per il front office dei Sixers. La progettualità e la pazienza hanno presto lasciato spazio alla fretta. E l’ambizione si è trasformata in arroganza.

Partendo dalle fondamenta faticosamente costruite per anni – decisamente solide da un punto di vista progettuale, a prescindere dalla (non) bontà della scelta di Fultz – Philadelphia è entrata in una disperata “win-now mode”.
Come? Sacrificando i propri asset e riducendo vertiginosamente la propria finestra temporale in cui essere competitivi, pur di provare a vincere subito. Errori da un punto di vista progettuale e tecnico hanno portato a trade e firme di stelle, ma prima ancora di nomi, come Jimmy Butler, Tobias Harris, Al Horford. Senza un vero progetto tecnico, né il tempo per svilupparlo.
Negli scorsi Playoffs, i Sixers – guidati dalla leadership di Butler (quella che Embiid non ha mai dimostrato di avere) e con un tiratore come JJ Redick ad esaltare le qualità dei singoli – sono stati la miglior versione di loro stessi. Si sono infranti contro il destino di una squadra, i Raptors, che si trovava anch’essa in “win-now mode”. Ma che era arrivata a quel punto con una mossa audace – e non arrogante – di Masai Ujiri: la trade per Leonard, ovviamente. Una mossa coraggiosa, senza un domani in caso di fallimento, ma poggiata su un progetto da portare a compimento e soprattutto su idee tecniche precise. Quelle che i Sixers non hanno mai realmente avuto in questi anni.
Ora, però, il tempo potrebbe essere finito. Un’altra sconfitta con i Celtics – già in Gara 4? – e poi un’off-season che ancora una volta potrebbe essere molto turbolenta. Stavolta, però, l’unica via d’uscita sarà rompere il giocattolo e accettare che ci vorrà del tempo per ricostruirlo, considerando che gli indesiderabili contratti di Horford ed Harris saranno difficili da spostare senza compiere dei sacrifici.
Non è un’assurdità pensare che Embiid e Simmons l’anno prossimo non giocheranno più insieme per i Sixers. Sembra, anzi, una svolta obbligata per dare vita a un progetto che necessita di nuove fondamenta.
Quello che è assurdo, invece, è pensare che questa fretta, Phila, se l’è messa da sola. Andando in controtendenza rispetto al resto dell’NBA, in ogni senso: sia per il quintetto gigantesco e decisamente poco moderno su cui hanno puntato quest’anno, sia per l’all-in iniziato due anni fa, in un periodo in cui la lega veniva dominata da una delle squadre, i Warriors ovviamente, più forti di tutti i tempi.
Ora i Sixers hanno il vuoto davanti.
Per fare luce, dovranno mettere da parte l’arroganza, tornare ad avere pazienza e soprattutto rimettere le idee tecniche al centro del progetto.